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 [Leggenda] Il Sas de la Preja Buja

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metalgiamma
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metalgiamma


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MessaggioTitolo: [Leggenda] Il Sas de la Preja Buja   [Leggenda] Il Sas de la Preja Buja Icon_minitimeMer Set 16, 2009 12:19 pm

Questa è una leggenda proprio del mio paese riguardante un masso erratico risalente al Neozoico, proveniente probabilmente dal Gottardo e giunto fino a Sesto Calende a causa della glaciazione.
Questa è una foto del masso:
[Leggenda] Il Sas de la Preja Buja Sesto-10
Buona lettura! :ciao:

Molti e molti anni fa a Sesto Calende viveva un pescatore con moglie e prole. Ma non era un pescatore qualsiasi. Si trattava di un eletto mortale che aveva conosciuto la dea Venere un giorno spuntata dalle acque; ella se n’era invaghita e avevano amoreggiato. Il rapporto era continuato per alcuni mesi e se il pescatore era riuscito a tenere la famiglia all’oscuro della illecita relazione non vi era stato però modo di nascondere la cosa al Sole, il quale era andato subito a riferirlo a Giove, il padre degli dei. Quando Giove venne a saperlo, fu colpito da un’ira indicibile:
“Come è mai possibile che la dea più bella dell’Olimpo rifiuti di dare il suo amore a me, il capo degli dei, per poi unirsi con un comune, volgarissimo umano?!”
Non riuscendo più a controllarsi, Giove mandò una Folgore sul pescatore trasformandolo per punizione in un drago. Quel giorno la famiglia attese invano il ritorno dell’ uomo, gli amici lo cercarono ovunque ma tutto ciò che riuscirono a trovare fu la sua barca capovolta al largo.
E quella povera donna, Vinicia, moglie e madre, non riusciva a spiegarsi cosa fosse successo e si chiedeva affranta come avrebbe potuto tirar grandi i due figli. La sera una luce brillò intensa nel cielo. Poi una parte di essa si distaccò e raggiunse la terra assumendo le sembianze di una donna eterea e bellissima. Era Venere, che cercava il suo amore trasformato in drago perchè voleva stringerlo a sè e parlargli.
“Tesoro caro – disse singhiozzando la dea - ciò che ti hanno fatto non può rimanere invendicato. Con il tuo alito infuocato dovrai bruciare tutta questa terra prediletta dagli dei. Ma siccome il fuoco non sarà abbastanza, tieni, metti nelle tue fauci quest’erba velenosa che ho colto dalle rive dello Stige. A contatto del fuoco l’erba emetterà vapori venefici che si spargeranno ovunque, trasformando tutta la zona in un paesaggio di morte e distruzione.”
Poi salutò l’animale con un ultimo abbraccio e se ne tornò donde era arrivata. All’alba l’incendio provocato stava già divorando ettari di terra e dove non arrivavano le fiamme erano i vapori velenosi a distruggere ogni forma di vita umana, animale e vegetale. Uno dei figli del pescatore avvistò le fiamme e corse ad avvertire la madre del pericolo. In un primo tempo la donna non diede eccessivo peso alla cosa perchè‚ pensava si trattasse dei fuochi accesi in onore di Cibele. Ma dopo poco il figlio ritornò e insistette: “La gente fugge verso Stazzona e il fuoco è ormai vicino alla nostra casa. Andiamocene anche noi!”.
Presi allora i due pargoli, il più piccolo in braccio e l’altro per mano Vinicia cercò di correre verso la salvezza attraverso boschi e colline. Arrivarono su un’altura, dove credettero di essere finalmente al sicuro ma poco dopo salirono da un valloncello le mortali esalazioni che costrinsero nuovamente la famiglia a fuggire. Il figlio maggiore era sfinito e implorava la madre di fermarsi. Questa lo trascinò per un po’ ma poi il ragazzo si accasciò a terra: “Ti prego, mamma, non ce la faccio più, tu corri, mettiti in salvo,vai”.
Ma mentre proferiva queste parole un maledetto fumo biancastro che avviluppava il terreno lo raggiunse facendolo tossire: “Mamma, mamma…. mi sento soffocare… aiutami. … non riesco a respirare”. La povera donna era in lacrime, si piegò sul figlio mentre anche il bambino fra le braccia stringeva la mano del fratellino quasi a volerlo incoraggiare nel continuare il cammino, ma i richiami del giovane si facevano sempre più flebili, fino a quando il volto divenne ceruleo e la sua mano allentò la presa del più piccolo. Anche questi ora piangeva abbandonando il capo sul seno della madre dopo aver tentato invano di emettere l’ultimo impossibile respiro. La donna era disperata, senza i suoi figli la vita non aveva alcun significato per lei e quindi decise di non abbandonarli: si gettò allora su di loro coprendoli con la veste e abbracciandoli stretti, come una chioccia con i pulcini, nel tentativo di proteggerli.
Dopo tre giorni e tre notti senza tregua, i pochi superstiti che ebbero avuto la fortuna di rifugiarsi sull’alto delle colline rividero l’arcobaleno e l’aria tersa di sereno. I venti l’avevano ripulita di ogni particella mortale, gli dei aiutati dai marosi avevano sconfitto il drago a colpi di tridente. Quando, stremati e affamati, gli abitanti tornarono alle loro case trovarono sul loro percorso il corpo della donna avvinghiato a quello dei suoi bimbi. Commossi, raccolsero le salme per cremarle e dare sepoltura alle ceneri. Il giorno successivo, nel luogo dove giaceva la famiglia, era comparsa una gigantesca chioccia di pietra con le ali aperte nell’atto di proteggere la covata. L’amore materno aveva fatto sbocciare un monumento naturale alla sua grandiosità.
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