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 Aedo Zendriano II-"Fuga"-Tullaris

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MessaggioTitolo: Aedo Zendriano II-"Fuga"-Tullaris   Aedo Zendriano II-"Fuga"-Tullaris Icon_minitimeMer Dic 23, 2009 11:16 am

ecco il mio testo per l' Aedo, è uscito fuori un po' schifido ma spero possa piacere. Buona lettura!

PS. mi sono ispirato al racconto "la Fuga" di Urizhel, e lo ringrazio perchè senza i suoi racconti forse non avrei mai trovato lo stimolo per scrivere.
mappa di naggaroth, se può servire Aedo Zendriano II-"Fuga"-Tullaris 176360
Spoiler:


FUGA

Il piede nudo
affondò nella pozzanghera fangosa, schizzando il liquido scuro tutto
intorno. L’ uomo correva nell’ intricato sottobosco di quella foresta
scura e ostile, tentando di ignorare la stanchezza e la fame. Alle sue
spalle, da qualche parte, risuonò un corno. La caccia era cominciata.
Continuò
a correre, stringendo in pugno il coltello che gli era stato dato per
aumentare il sadico divertimento di quella perversa battuta. Corse e
corse, finché la sua mente ricominciò a ragionare, respingendo l’
irragionevole volontà di scappare lontano da cacciatori a cavallo e
accompagnati
dai cani. Ansimando, con l’aria gelata che gli pungeva i polmoni, mise
in ordine i suoi pensieri. Doveva pensare a come sopravvivere alla
caccia.
Gli Elfi Oscuri praticavano sovente quel tipo di sport sui prigionieri, di
tutte le razze, che lavoravano come bestie nelle loro miniere. Quella
particolare famiglia nobiliare, il cui simbolo, una runa contorta e puntuta,
veniva impresso con il fuoco sulla carne dei prigionieri, usava organizzare
battute particolarmente crudeli, poiché alla preda veniva concessa un’
illusorio vantaggio, rappresentato dal pugnale arrugginito e dal tempo che
veniva concesso alla vittima per allontanarsi. La gran parte delle volte la
“selvaggina” correva fino allo sfinimento, e veniva poi raggiunta, torturata, e abbandonata a morire.
L’
uomo cercò di localizzare un qualche punto di riferimento uditivo, e lo
trovò. Acqua corrente, sulla destra. Riprese a correre in quella
direzione, e presto raggiunse un torrente che scorreva, rapido, davanti
a lui.
Si immerse nell’ acqua gelida, rabbrividendo, e fu tentato di
ridere. Ce l’ aveva fatta! Entrando in acqua avrebbe eluso il fiuto dei
terribili segugi che lo seguivano, e cosi avrebbe fatto perdere le
proprie tracce nella foresta. Stava per abbandonarsi alla corrente,
quando qualcosa lo bloccò. Il fiume era, in fin dei conti, vicino al
punto di partenza, ed era irragionevole sperare che i Druchii ne
fossero all’ oscuro; così come era lecito pensare che altri schiavi
sottoposti a quella caccia avessero raggiunto l’ acqua che ora gli
lambiva i fianchi con violenza. Eppure lui stesso aveva osservato i
suoi crudeli padroni tornare da ogni caccia brandendo macabre
testimonianze della riuscita della loro facile impresa.
Provò a
guadare, ma capì subito che l’ acqua era troppo alta e il fondo troppo
scivoloso per un uomo nelle sue condizioni: sarebbe stato
inevitabilmente vinto dal fiume.
Imprecando, cominciò a lottare
contro la corrente, avendo realizzato che gli Elfi Oscuri sapevano con
precisione dove andavano a finire gli uomini che si lasciavano
trasportare, e potevano quindi precederli e catturarli senza sforzo.
Avanzò
nell’ acqua gelida, scosso da brividi di freddo e paura, con penosa
lentezza, temendo ad ogni istante di udire i latrati dei cani, il
tamburellio pacato degli zoccoli sull’ erba, le grida di scherno dei
crudeli schiavisti, il sibilo spietato delle terribili quadrella delle
balestre.
Faticosamente, raggiunse e sorpassò un’ ansa, che
descriveva una curva molto stretta. Mise un piede su uno scoglio
coperto di alghe, scivolò, finì in acqua. Lottò disperatamente, e
riuscì a rimettersi in piedi, poi costrinse i suoi muscoli esausti a
continuare l’ impari lotta. Solo allora il suo cervello annebbiato
registrò il cupo rombo che in realtà udiva da qualche minuto, e alzò il
volto, distorto dall’ orrore. Un muro d’ acqua gli sbarrava la strada,
scivolando sulla roccia coperta di alghe per una decina di metri e
formando una pozza scura.
Il fuggitivo arrivò fino alla pozza, si
sedette su un masso e pianse tutta la sua disperazione. Aveva sperato.
Aveva creduto. Si era illuso di avere trovato una via di fuga che gli
Elfi Oscuri, padroni di quelle terre, non avessero previsto. Rimase
sorpreso davanti alla propria stupidità, alla dissennata volontà di
voler lottare contro il fato implacabile. Era condannato, ma non poteva
accettarlo. Non dopo la gioia che aveva provato nello sperare. Poi
capì.
Capì che il gioco degli elfi era proprio questo. Torturare
la psiche della vittima con false speranze e allucinazioni di libertà
prima di martoriarne il corpo.
Restò come pietrificato, sconvolto
dalla crudeltà di quelle malvagie creature. Capì che tutto il suo
essere, la sua personalità, la sua essenza, si riducevano ad essere un
trastullo per i potenti signori di quelle gelide lande.
Afferrò il
vecchio pugnale, chiedendosi se avrebbe avuto il coraggio di gettarcisi
sopra quando fossero arrivati a prenderlo. Si augurava di si, poiché
una morte tanto rapida era sicuramente preferibile agli infiniti
supplizi di cui sarebbe stato oggetto.
Stava ancora tentando di
accettare la sua sorte, quando lo sentì: il corno dei Druchii. Era
vicino, dunque gli Elfi Oscuri avevano seguito le sue tracce fino al
fiume. Gli sembrò di udire delle risate, come per schernirlo, ma forse
esistevano solo nella sua testa. Lentamente,la paura lo invase.
Ricordò, quasi giorno per giorno, i sette anni di patimenti che aveva
dovuto subire nelle terre di Naggaroth. Il freddo, la fame, le
percosse, il terrore, lo sfinimento, la lotta per la sopravvivenza
contro gli altri schiavi, tutto questo lo riempì, lo saturò di terrore.
Ed era il terrore a guidarlo, quando saltò nella pozza d’ acqua gelida.

Fu terribile. All’ inizio, come se centinaia di aghi gli pungessero
il corpo. Poi, paradossalmente, si sentì bruciare, quasi stesse andando
a fuoco. Urlò, ma aveva la testa sott’ acqua, per cui non produsse
alcun suono. Riemerse respirando affannosamente, il fiato mozzato dal
gelo, e cominciò a nuotare convulsamente, muovendo le braccia a scatti
e spruzzando acqua tutto intorno, per raggiungere la roccia dalla parte
opposta dell’ agitato specchio d’ acqua. Si issò sulla pietra,
ansimando, e gemette di dolore quando il sangue riprese la
circolazione.
Avrebbe voluto riposare, ma non ne aveva il tempo,
quindi iniziò la scalata. Si rese conto, con una certa pacata felicità,
che gli appigli erano numerosi e la roccia stabile. L’ uomo era
sfinito, e veniva continuamente assalito dalla stanchezza e dallo
sfinimento, che, insieme al freddo, gli facevano tremare convulsamente
le membra, rendendo un’ arrampicata che avrebbe a malapena impensierito
un bambino un’ impresa disperata. I polpastrelli cominciarono a
sanguinare, ma lui non avvertì alcun dolore. Non avvertiva niente, in
effetti, a parte il terrore schiacciante che, distorcendo la sua
cognizione del tempo, faceva sembrare ogni minuto lungo come tutta una
vita. Ad un certo punto, tastando la roccia con la mano, non trovò
alcun appiglio. Nel panico crescente, alzò la testa e guardò in tutte
le direzioni, ma era bloccato. La spossatezza gli aveva impedito di
accorgersi prima che la parete rocciosa, ad appena un metro dalla
cresta, diventava liscia e uniforme, e ora non poteva più tornare
indietro, andare avanti o muoversi lateralmente. Restò lì, assurdamente
appeso alla pietra, mentre il suo cervello non riusciva ad accettare la
realtà. Era troppo stanco perfino per compiangersi, poteva solo
continuare inutilmente a sondare la pietra con lo sguardo, in cerca di
appigli che non esistevano, finché dei deboli tintinni non bloccarono i
movimenti frenetici della sua testa. Si udivano a malapena sopra il
fragore dell’ acqua, ma erano inequivocabilmente tintinni, e lo schiavo
era angosciosamente consapevole del loro significato. Aveva sentito
migliaia di volte quegli scampanellii, prodotti dagli Elfi Oscuri: dai
guerrieri che facevano la guardia agli schiavi ai nobili che, per
diletto, a volte si recavano a pungolare i prigionieri al lavoro, tutti
portavano addosso amuleti e rune metalliche che, rimbalzando contro
armature e cotte di maglia, producevano quei caratteristici tintinni.
L’ uomo fu preso nuovamente dal terrore, e il bisogno impellente di
vivere, il prepotente istinto della sopravvivenza, gli riverberò in
tutto il corpo. Rimase appeso con una sola mano, mentre con l’
altra
sfilava il pugnale arrugginito dalla cintola. Tentò forsennatamente di
incastrarlo in qualche fessura, ma erano troppo poco profonde. Allora il
terrorizzato
fuggitivo fece l’ unica cosa possibile: con le magre gambe ed il
braccio esausto si diede una spinta verso l’ alto, che per quanto
debole gli consentì di conficcare la lama del coltello nel duro suolo
che copriva la
cresta rocciosa. Per un orribile momento gli sembrò
di farsi scivolare l’ impugnatura dai polpastrelli sanguinanti, poi
sbatté contro il crinale, lanciò
un braccio in alto, si issò oltre
l’ odiata roccia e rotolò oltre, fermandosi con la faccia al cielo,
completamente prosciugato di ogni risorsa.
Sentì i tintinni
avvicinarsi, poi udì anche le voci. In quei sette terribili anni in cui
era stato prigioniero degli elfi, aveva cominciato ad apprendere
qualcosa del loro aspro e tagliente idioma, e capì a grandi linee che i
cacciatori consideravano il loro compito soltanto una perdita di tempo,
ed erano ansiosi di tornare con gli altri, probabilmente per rendersi
partecipi dell’ esaltazione della cattura. Quindi non persero tempo nel
tornare indietro, dopo aver fatto bere un po’ i cavalli per dare
impressione agli altri di aver cercato minuziosamente le tracce dell’
umano, che peraltro non avrebbero certo faticato a trovare.
Se ne
andarono, lasciando la loro preda esausta e incredula, ma viva. Il
cuore dell’ uomo rallentò le pulsazioni, regolarizzando i battiti. Il
fuggiasco provò una fugace sensazione di euforia, che venne subito
spazzata via da un’ ondata di spossatezza. Non riuscì più a muovere
neanche un muscolo. Facendo appello a tutte le sue forze, si girò su un
fianco e il suo cuore ebbe un tuffo. Davanti ai suoi occhi,
perfettamente mimetizzato in un cespuglio, c’ era un nido pieno di
piccole uova. Le prese, le bucò con la punta del coltello e bevve
avidamente, gustandole a fondo. Quel magro spuntino non era certo
definibile come pasto, ma per la prima volta in sette anni si nutrì da
uomo libero, e perfino quelle uova fredde e amare gli parvero più
gustose di qualsiasi banchetto gli avrebbero potuto offrire, perché era
libero. Libero! Si rialzò, attraversato da un fremito di vita che lo
scosse dalla testa a piedi, e pensò a cosa avrebbe potuto fare a quel
punto. Era solo, in mezzo a fredde foreste sconosciute, mezzo nudo e
armato solo di un pugnale arrugginito. Era stanco, troppo stanco, ma si
costrinse a pensare a come scappare dalle terre degli Elfi Oscuri.
Avrebbe voluto dormirci su, ma sapeva che se si fosse addormentato, non
si sarebbe svegliato prima dell’ avvento delle tenebre, e allora
sarebbe congelato, passando dal sonno all’ oblio.
Continuò a
esaminare mentalmente la sua situazione, provando a interpretarla in
tutti i modi e tentando di trovare una soluzione che gli permettesse di
uscire vivo dal regno dei Druchii. Pensò e pensò ancora finché, con un
lampo di comprensione, o forse di pazzia, capì cosa andava fatto. Era
un’ idea folle, incredibilmente folle, e proprio per questo era l’
unica che potesse funzionare.
________________________________________________________________________________

Lekrath spronò il cavallo nel sottobosco. Staccò da un albero un ramo secco, e lo ruppe con violenza contro il tronco.
Era
giovane, l’ equivalente elfico di un adolescente umano, ed era furente.
Era la prima volta che gli veniva concesso di partecipare ad una caccia
allo schiavo, insieme a tutti i nobili della città, e la spedizione era
stata un fallimento!
Lui, rampollo della più importante famiglia aristocratica di Clar Karond, e
tutta l’ elite della società elfica, beffati da un puzzolente barbaro umano!
Probabilmente
l’ idiota era morto tentando di attraversare il fiume, ma alcuni
avevano ipotizzato che si fosse annegato di proposito, preferendo il
soffocamento alla tortura. Era già successo, avevano detto, era
normale, avevano detto, ci sarebbero state altre occasioni, avevano
detto. Cionondimeno, il giovane si era infuriato, anche se aveva avuto
abbastanza astuzia da non lasciarlo trapelare. Si era tolto la pesante
armatura da cerimonia e si era avviato verso la città per conto suo.
Per sfogare la sua rabbia, aveva intenzione di andare al campo degli
schiavi, comprare un umano e ucciderlo lentamente. A riparazione di
quello fuggito.
Il suo cavallo ebbe uno scarto e nitrì, e Lekrath gli piantò violentemente i
talloni
nei fianchi, assestandogli al contempo un pugno sul collo. Poi sentì un
fruscio dietro di lui, e un dolore lancinante alla schiena quando una
lama gli penetrò nella carne. Gli sfuggì un gemito, poi cadde. Riuscì,
a stento, a non urlare.
Sentì il cavallo scalpitare, nitrire di
dolore ed infine crollare a terra. Digrignò i denti, sporchi di terra,
tentando di ignorare l’ acuto dolore al fianco destro, dove il coltello
era ancora conficcato.
Avvertiva l’ aggressore muoversi e frugare
nelle sacche da sella del cavallo morto, ma non si arrischiò a
sbirciare: la sua sopravvivenza dipendeva dalla sua capacità di reggere
il dolore e restare immobile. Sentì il misterioso assassino
avvicinarsi, e trattenne il fiato. L’ aggressore si accucciò e afferrò
l’ impugnatura del coltello, che sporgeva dalla schiena dell’ elfo. Lo
strattonò per liberarlo, ma era impigliato nella carne, allora lo torse
nella ferita per liberarlo. Per Lekrath la sofferenza fu
inimmaginabile, e tentò di ignorare il dolore concentrandosi sulla
vendetta che si sarebbe preso sul bastardo che aveva osato ferirlo.
Liberato il coltello dalla carne dell’ elfo, l’ aggressore rimase in
piedi a fissare il corpo del Druchii, impassibile, poi gli tirò un
calcio sul fianco ferito. Lekrath urlò. L’ altro, che aveva sferrato il
calcio per odio e non perché pensasse che l’ elfo fosse ancora vivo,
fece un balzo indietro per la sorpresa, poi gli si gettò addosso,
trascinandolo giù. Lekrath vide finalmente il volto dell’ aggressore, e
rimase di stucco vedendo la folta barba, i lunghi capelli incolti e la
seminudità dell’ altro. Era stato
aggredito da un miserabile schiavo, un animale come tutti gli altri che aveva ucciso o torturato per diletto!
Il miserabile schiavo gli ficcò un pugno di terra in bocca, poi gli pugnalò la
spalla
destra. Lekrath gemette, semisoffocato dal terriccio umido, ma riuscì a
sferrare un pugno all’ umano, e a divincolarsi. Era sul punto di
scappare, ma l’ uomo riuscì a sferrargli una coltellata al polpaccio,
poi gli balzò nuovamente addosso e gli recise i tendini del braccio
sinistro. Ormai l’ elfo era in balia dell’ umano sporco, affamato e
stanco, che in quel momento era completamente preda di una violenta
frenesia omicida. Calò più volte il pugnale sul petto del Druchii, che
si divincolava freneticamente nell’ inutile tentativo di scappare, poi
gli sferrò una coltellata in faccia, sfregiandolo. Continuò a infierire
mentre l’ elfo si dibatteva nell’ agonia, poi gli squarciò il petto,
gli strappò il cuore e lo mangiò, gustandosi la sua vendetta. La sua
vittima era scossa dagli ultimi tremiti, gli occhi che mostravano il
bianco, e tossiva terra mista a sangue.
L’ uomo si alzò, ansimando, la faccia ed il torso coperti da schizzi di sangue.
Restò
a fissare l’ elfo agonizzante, senza capire cosa stava provando:
sollievo, odio, rabbia, e crudele godimento si mescolavano in lui.
Quando il Druchii smise di tremare e contorcersi, l’ uomo si riscosse e
cominciò a frugare il cadavere. Gli prese la spada ed un paio di
affilati pugnali, gli sfilò il mantello e appoggiò tutto sul terreno,
poi dedicò la sua attenzione alle sacche da sella. Trovò un involto che
scoprì contenere una specie di pane pressato, molto compatto e secco.
Sembrava ideale per i lunghi viaggi, per cui lo riavvolse e lo mise da
parte. Recuperò un cilindro di legno, che scoprì essere il contenitore
di una mappa, una corda di canapa, un fiasco dall’ aspetto esile ed un
mantello nero fatto di una strana stoffa, leggera ma dall’ aria
resistente. Nelle sacche non c’era altro, neppure una delle balestre
tanto usate dagli Elfi Oscuri.
L’ uomo si legò il mantello al collo,
poi prese la corda e ne fece una tracolla per la spada, che si appese
sulla schiena così che l’ elsa sporgesse dalla spalla destra. Indossò
la cintura del cadavere in modo che i pugnali si trovassero entrambi
dietro la schiena, nascosti dal mantello, poi mise tutto quello che
restava nel mantello insanguinato appartenuto all’ elfo ucciso,
fabbricandosi così un semplice fagotto che si gettò in spalla.
Mentre i corvi cominciavano a calare, attirati dal sangue, e il sole scompariva gradualmente dietro le montagne, l’
umano
si diresse verso sud, lasciandosi alle spalle, piantato nel cranio
dell’ Elfo Oscuro morto, il pugnale arrugginito che gli era stato dato
per animare la caccia. Ma la caccia era fallita, un giovane
aristocratico giaceva senza vita nell’ erba gelida e uno schiavo si
addentrava, libero, nelle foreste di Naggaroth.

L’ uomo camminò
per circa un’ ora, avanzando nella luce incerta che seguiva al
tramonto, poi si rannicchiò sotto il mantello che, scoprì, conservava
il calore molto meglio meglio di un pesante vestito di lana. Questo non
gli impedì di svegliarsi tremante di freddo, la mattina dopo, tanto che
fu costretto a battere violentemente i piedi a terra per far riprendere
la circolazione. Stranamente, non era affamato, anche se non aveva
mangiato niente dalla mattina precedente, a parte il cuore del Druchii.
Si chiese se mangiare cuori elfici procurasse la perdita della fame, e
decise che, nella sua situazione, sarebbe stato un grosso vantaggio,
visto il lungo viaggio che probabilmente lo aspettava. Dopo essersi
sfregato le mani, si diresse verso il suo semplice bagaglio, lo aprì e
ne trasse il tubo di legno, da cui sfilò la mappa. Era grande, tanto
che dovette stenderla a terra per guardarla.
La mappa ritraeva le
terre degli Elfi Oscuri, lo capì subito, perché ogni città (in tutto ne
contò sei) era indicata con una minuscola, minuziosa figura
rappresentante la città stessa, con le alte, aguzze torri tipiche dell’
architettura
Druchii. Le scritte erano, ovviamente, formate da rune incomprensibili,
ma l’ uomo si sforzò di individuare tra le sei città quella in cui era
stato prigioniero per anni.
Ci mise poco a scoprire che si trattava
di quella più a sud. Aveva riconosciuto subito la lunga e stretta
insenatura che portava dal mare alla città. Quell’ insenatura era tanto
stretta da poter essere presa per un fiume, infatti l’ uomo l’ aveva
scambiata per un corso d’ acqua dolce finché non aveva provato a berne
l’ acqua.
Oltre a questa caratteristica, la città meridionale era l’
unica completamente circondata da fitte foreste, mentre le altre erano
costruite a ridosso delle montagne, nell’ entroterra e una addirittura
su un’ isola al nord.
Non aveva la minima idea della sua posizione
attuale, perché durante la sua fuga da incubo aveva completamente perso
il senso dell’ orientamento. Pensò per un attimo a quanto era stato
fortunato, poi riportò la propria attenzione sulla mappa e si chiese
dove potesse andare. Come riuscire a scappare da quelle terre
infernali, governate da crudeli signori?
Il suo sguardo si spostò
sulla mappa mentre pensava, come seguendo un percorso che già
conosceva. Dalla città in cui era stato schiavo si diresse sud,
attraverso i boschi, finchè non incontrò l’ oceano. Qualcosa, nel
profondo del suo essere, gli indicò l’ oceano come meta. Richiuse
seccamente la mappa, riponendola nel suo contenitore, che rimise al suo
posto nel bagaglio.
Con il fagotto in spalla, l’ uomo si incamminò
verso il sole nascente, seguendo il suo istinto, perché l’ istinto era
tutto quello su cui poteva fare affidamento nella sua situazione. Per
circa due o tre ore si sfiancò procedendo dritto verso est attraverso
la boscaglia, poi decise di adottare un altro metodo: non appena
trovava un crinale che portava nella sua direzione, lo percorreva per
intero stando sulla cima, in modo da ridurre al minimo salite e
discese. Nonostante questo espediente, presto si ritrovò a corto di
fiato, anche se continuava a non avere fame. Camminò tutto il giorno,
facendo pochissime soste e tentando di stare sempre in cima alle coste
scoscese coperte di alberi. Verso la fine della giornata, si avvide che
la vegetazione cominciava a cambiare. I pini erano sempre altissimi, ma
non erano più di un verde tanto scuro da sembrare nero come nelle terre
più vicine alla città degli elfi, stavano invece riacquistando il loro
colore naturale, e qua e la si intravedevano altre
piante, come
querce, castagni, e persino alcuni gruppi di faggi, quasi che la
foresta si stesse liberando da qualche malefico sortilegio.
Alla
fine della giornata, l’ uomo si rannicchiò ai piedi di un grande
castagno e dormì. Al risveglio aveva la schiena a pezzi. Non riusciva a
vedere esattamente da dove sorgesse il sole, ma orientandosi in base
alla poca luce che filtrava dal compatto tetto di foglie, capì di aver
deviato leggermente a sud, il giorno prima. Imprecò. Capiva che non
poteva procedere alla cieca, ma non aveva la più pallida idea su come
orientarsi. Se solo l’ elfo avesse avuto una bussola nelle tasche da
sella...forse, se lui avesse frugato meglio il cadavere l’ avrebbe
trovata. Scosse il capo, allontanando quei pensieri inutili, e
concentrandosi per trovare una soluzione a quel problema. Non poteva
costruirsi una bussola, per il semplice fatto che non sapeva come
farlo, e dalla foresta non c’ era modo di spaziare con lo sguardo per
trovare punti di riferimento. Non dal suolo,almeno.
Guardò il castagno sotto cui aveva dormito. Non sembrava impossibile scalarlo, e dalla cima avrebbe goduto di una vista
migliore,
almeno così sperava. Togliendosi il mantello, si infilò il contenitore
della mappa in bocca e cominciò ad arrampicarsi.
L’ ascesa non fu
particolarmente difficile, e l’ uomo si stupì di non provare molta
fatica. Avvertiva l’ aria pungente nei polmoni e il legno ruvido sotto
le mani ed i piedi. Gli sembrava di avere coscienza di tutto ciò che lo
circondava e di esserne parte, e pensò per l’ ennesima volta a quanto
fosse piacevole la libertà. Continuò ad issarsi di ramo in ramo, fino
ad arrivare in cima. Si sedette su un intrico di rami che pareva
un
piccolo trono, poco sotto le ultime fronde, prese la mappa e la guardò
attentamente. Esaminò con cura le terre a est della città in cui era
stato
schiavo, e notò che, in mezzo al mare di piccoli coni
simboleggianti gli alberi della foresta, si ergevano alcune montagne
solitarie. Ne notò tre, in particolare, situate appena più a nord di un
corso d’ acqua. Seguì il fiume con lo sguardo finché non lo vide
gettarsi nell’ oceano. Improvvisamente gli venne un’ idea. Ripose la
mappa nella custodia, che si rimise in bocca, poi si alzò e si appese
ad uno dei rami più alti, spingendosi verso l’ alto e superando
finalmente quel tetto di fogliame. Rimase a bocca aperta.
Letteralmente, visto che dovette prendere al volo il contenitore della
mappa prima che gli sfuggisse e si schiantasse al suolo. Tutto intorno
a lui la foresta si estendeva formando un compatto oceano di foglie,
ondulato come il mare ove la foresta seguiva il fondo delle valli o si
inerpicava sulle creste. Il colpo d’ occhio era impressionante, anche
se la vista era parzialmente coperta da alcuni alberi particolarmente
grandi.
L’ uomo impiegò pochi secondi per rintracciare le cime che
aveva visto sulla mappa. Erano tre piccole montagne solitarie, i cui
versanti rocciosi privi di alberi contrastavano nettamente con il
verdeggiante paesaggio. I tre monti erano in realtà tre picchi della
stessa compatta formazione rocciosa.
Si orientò alla meglio,
basandosi sulla posizione del sole sorto da poco, e capì che si trovava
ad un paio di giorni di cammino a sud-ovest rispetto ai tre picchi.
Guardò verso est, poi a sud-est, e vide una lieve foschia dissiparsi
nella luce del mattino, sopra le chiome degli alberi. La foschia
indicava la presenza di acqua nelle vicinanze: per trovare il fiume,
avrebbe dovuto dirigersi a sud-est. Sfilò uno dei pugnali dalla sua
custodia, poi lo lasciò cadere con la punta rivolta verso il basso.
Nella caduta la lama non venne intralciata da nessun ramo, e si piantò
nel terreno con un tonfo sordo. Allora l’ uomo si calò lentamente fino
a terra, trovando la discesa molto più ardua dell’ ascesa, recuperò il
suo bagaglio, rintracciò il pugnale e si diresse con passo deciso verso
il fiume. Il coltello gli era servito da bussola, indicando la
direzione che avrebbe dovuto prendere allontanandosi dal tronco del
castagno.
Dalla cima dell’ albero aveva calcolato che, per
raggiungere il fiume, avrebbe dovuto impiegare due o tre giorni di
cammino. Al tramonto del quarto, cominciò finalmente a sentire il
rumore lontano del corso d’ acqua, che raggiunse la mattina dopo. Capì
di aver deviato verso sud, perché il fiume era troppo grande in quel
punto per trovarsi vicino alla fonte, anche se manteneva ancora la
corrente impetuosa tipica dei torrenti montani. Bevve a lungo l’ acqua
gelida e riempì il suo piccolo fiasco, poi pasteggiò con il pane elfico
(negli ultimi due giorni aveva ripreso a provare fame) e si avvide che
stava per finire. Era un problema non da poco, dato che non aveva idea
di come procurarsi cibo tra quelle montagne. Guardò pensieroso il
fiume, chiedendosi se fosse ancora in grado di cacciare le trote con l’
arpione come faceva da ragazzo.
Ci avrebbe pensato quando sarebbe
stato il momento, decise l’ uomo. L’ importante, lo sentiva, era
seguire il corso del fiume fino all’ oceano, e ancora non sapeva
perché. Quando provava a ragionare sulla sua situazione, gli pareva
ogni volta di più di essere perduto, di non avere possibilità di
lasciare quelle fredde terre e di poter tornare nelle sue terre natali,
per cui aveva semplicemente constatato che riflettere era inutile.
Qualcosa gli diceva che alla foce del fiume, all’ oceano, c’ era
speranza, e questo gli bastava. Si appigliava con tutta la sua anima a
quel miraggio, sforzando tutto il suo corpo nel tentativo di
raggiungerlo.
Per questo si caricò il sacco in spalla e si incamminò
a lato del fiume, tentando di ignorare le fitte lancinanti che gli
attraversavano il corpo, dai piedi nudi e sanguinanti alle mani
piagate.
Continuò a procedere verso sud per altri due giorni. Il
dolore aumentava, il cibo diminuiva. L’ uomo tentava di tenersi più
vicino possibile al fiume, ma il cammino era comunque difficoltoso a
causa delle frequenti rapide e cascate lungo il corso del fiume, che
spesso cadevano lungo spaventosi dirupi rocciosi che richiedevano
diverse ore per essere aggirati. Alla fine, quando ormai il secondo
giorno volgeva al termine, l’ uomo sbucò ansimante in una radura
costeggiante il fiume. La radura era punteggiata di strane sagome, ma
la luce incerta e l’ oscurità incombente non gli permisero di capire di
cosa si trattasse.
Esausto, si rannicchiò sotto un sasso e dormì. La
mattina dopo, gli sembrò di trovarsi in uno strano sogno. Svegliandosi,
si trovò circondato dalle strane sagome che aveva visto la notte
precedente, che nella luce incerta precedente l’ alba si rivelarono
essere ruderi. La struttura lignea delle costruzioni si intravedeva
appena, sepolta com’era dalla vegetazione, ma qua e là alcuni edifici
in pietra davano un’ idea della loro antica funzione di stalle. L’ uomo
si aggirò nel villaggio in rovina, che sorgeva presso il punto in cui
il torrente che aveva seguito durante le giornate precedenti si
incrociava con un altro corso d’acqua proveniente da est, formando un
fiume che scorreva impetuoso a sud. Impossibile capire quale fiume
confluisse nell’ altro, perché erano identici, come un’
immagine e
il suo gemello nello specchio. Nel punto d’ incontro dei due fiumi si
creavano piccoli mulinelli, quasi che l’ acqua proveniente da est
scambiasse qualche effusione con quella dell’ ovest, prima di unirsi a
essa e proseguire verso sud.
L’ uomo arrivò in riva al fiume e si
sedette sull’ erba umida, guardando l’ acqua scorrere veloce verso sud,
punteggiata qua e la da rocce affioranti, tronchi spezzati e arbusti
alla deriva. Guardò l’ orizzonte, a sud, e sentì l’ oceano da quella
parte, alla foce di quel fiume. L’ istinto gli diceva di proseguire
immediatamente, eppure lui si sentiva in qualche modo legato a quel
luogo.
Sentiva che gli ricordavano qualcosa, eppure non capiva cosa
esattamente. Lasciò scorrere lo sguardo sullo scenario del villaggio in
rovina, e sentì di nuovo qualcosa solleticargli la memoria. Volse
nuovamente lo sguardo verso il fiume, poi notò qualcosa luccicare ai
suoi piedi e si chinò, sollevando poi un piccolo oggetto tra il pollice
e l’ indice. Era un bolzone di un dardo degli Elfi Oscuri,
riconoscibile per via degli affilati uncini. Non era minimamente
segnato dalla ruggine, eppure doveva essere li da parecchio tempo, dato
che presumibilmente l’ asta di legno del dardo si era decomposta con il
passare degli anni.
E improvvisamente, un torrente di ricordi e intuizioni gli si riversò nella
mente. Ricordò la sua lunga prigionia, e in particolare vide chiaro nella sua
testa il volto di Rental, un uomo che era stato dotto e intelligente. Era
durato
poco più di una settimana, ma il fuggiasco si ricordava ancora di
unaconversazione avvenuta nella lurida e fredda cella dove aveva
dormito per anni.
Rental disse che i Druchii non erano nativi delle terre del freddo, ma vi si
erano insediati in seguito a qualche avvenimento che li aveva fatti emigrare.
Rental
aveva parlato a lungo di come fosse giunto alla sua conclusione,
mapochi lo avevano ascoltato e pochissimo capirono il discorso, ad ogni
modo quella teoria pareva essere in grado di avanzare una nuova ipotesi
sul destino del villaggio in rovina. Gli Elfi Oscuri erano predoni,
questo ogni schiavo lo sapeva bene. Tutti li conoscevano come pirati,
terribili corsari che solcavano il mare con le loro enormi imbarcazioni
da incubo, portando morte e distruzione alle altre razze.
Considerando
la crudeltà degli elfi, ed insieme il fatto che essi erano arrivati in
quelle terre in un secondo tempo, l’ uomo ci mise poco a capire che il
villaggio in rovina alla sue spalle era stato saccheggiato dai Druchii,
e che i suoi abitanti erano stati uccisi e presi come schiavi.
Con
una fitta di tristezza, l’ umano pensò che il suo villaggio natale
doveva aver avuto più o meno quell’ aspetto, dopo la razzia elfica.
Si
fece coraggio e si voltò, per dare un’ ultima occhiata a quel remoto
villaggio, ultimo ricordo di una razza ormai estinta, e si trovò faccia
a faccia con una spada sguainata.
A brandirla era un’ alta figura completamente vestita di nero. Portava un
cappuccio nero ed un fazzoletto nero che gli coprivano il viso, lasciando
scoperti solo gli occhi, che emanavano una violenta corrente di odio e
malvagità. Solo gli Elfi Oscuri avevano occhi così.
Dopo la sorpresa iniziale, l’ umano si inginocchiò e cominciò a singhiozzare,
fingendo di aver perso il controllo, mentre in realtà la sua mente stava
analizzando
velocemente la situazione. Tra le ombre delle rovine colse alcuni
movimenti, segno che l’ elfo non era solo. Non che ci avesse mai
sperato, ma questo precludeva la possibilità di cavarsela con l’
uccisione del Druchii che aveva davanti. Se si fosse fermato a pensare,
gli sarebbe parso assurdo che un umano, uno schiavo fuggitivo debole e
stanco, fosse tanto sicuro di poter uccidere un combattente Elfo Oscuro
quanto lo era lui. Ma in quel momento non stava pensando. Ed era sicuro
di poter uccidere l’ avversario, semplicemente perché glielo diceva l’
istinto. Doveva sopravvivere. E per sopravvivere avrebbe dovuto
uccidere l’ elfo. Quindi l’ elfo sarebbe morto.
L’ elsa della
spada rubata al giovane nobile gli sporgeva dalla spalla destra, e lui
mosse lentamente la mano in alto, come per afferrarla. Per tutta
risposta, il freddo acciaio elfico gli premette sulla gola. L’ uomo si
bloccò e riprese a singhiozzare. Il Druchii sibilò, poi cominciò a
ridacchiare, compiaciuto dell’ impotenza della sua vittima. Sempre
ridendo, si abbassò e impugnò l’ elsa della spada sulla spalla dell’
umano, cominciando a sfilarla dal fodero. Fu allora che l’ uomo agì.
Quando l’ attenzione dell’ elfo era stata catturata dal ridicolo tentativo di
afferrare la spada con la mano destra, la sinistra si era stretta sull’ elsa di
uno dei coltelli elfici nascosti dal mantello logoro. E quando il bastardo si
chinò
per disarmarlo, la lama uscì rapidamente dal fodero e lacerò pelle,
carne e muscoli, lasciando un orrendo squarcio sanguinante sul ventre
del Druchii, che indietreggiò fissando inorridito il sangue che
sgorgava a fiotti e premendo le mani sulla ferita per trattenere le
interiora nel suo corpo. Lanciò un urlo di orrore, poi alzò lo sguardo,
incontrando quello dell’ uomo, e ruggì il suo odio. Cercò di riprendere
la spada, ma barcollò e cadde in ginocchio. Sputando maledizioni nella
sua aspra lingua, si afflosciò su un fianco.
L’ uomo lo fissò
affascinato, finché un bolzone non gli sfiorò una spalla, seguito da un
altro che gli portò via un lembo di pelle sul collo. Imprecando, si
girò su se stesso e si tuffò nella corrente tumultuosa, mentre le
quadrella fioccavano.
Le Ombre degli Elfi Oscuri corsero verso il
fiume, facendo schioccare le corde delle loro balestre, ma l’ uomo era
scomparso tra i flutti e i dardi si persero sull’ agitata superficie
del fiume. I Druchii dovettero fermarsi sulla riva, impotenti, di
fianco al loro compagno agonizzante. Non seguirono l’ umano in acqua,
perché sapevano che il fiume diventava, dopo neanche un chilometro, un
inferno ribollente di schiuma da cui era quasi impossibile uscire vivi.
Mentre i gemiti e i sussulti del moribondo si spegnevano lentamente,
pregarono Khaine di prendere l’ anima dell’ umano.


Era buio.
Tutto era nero, e non sentiva più il suo corpo. Udiva un rumore di
onde, ma era lontano, in un altro mondo, in un’ altra realtà. In quell’
universo di buio l’ uomo si sentiva in pace.
Le tenebre lo
tentavano, promettendogli riposo, e lentamente lo avvolsero,
sprofondandolo in un oblio distante da tutto e da tutti.
Quasi per
caso, l’ uomo realizzò che stava morendo. Lo capì con una sorta di
pacata curiosità, come se si trattasse di un qualche fenomeno bizzarro.
Poi, però, iniziò a ricordare tutto quello che aveva passato, e seppe
che non doveva morire proprio quando i suoi sforzi stavano per essere
coronati dal successo. Non poteva.
“Perché no?” suggerì una vocina insinuante.
L’ uomo la ignorò, e aprì gli occhi.
Si
trovò a fissare un piccolo pezzo di corteccia sul tronco dell’ albero
su cui giaceva. Il legno tutto intorno a quel frammento era glabro,
scortecciato dalla furia del fiume, ma quel pezzettino resisteva,
ostinatamente aggrappato al tronco così come l’ uomo era tanto
ostinatamente aggrappato alla vita.
L’ uomo udì nuovamente il
rumore delle onde, ma stavolta era intorno a lui. Era in acqua, ma la
superficie era calma, segno che ormai aveva superato la foce del fiume
ed era finalmente arrivato all’ oceano. Provò un empito di gioia e gli
venne voglia di ridere, ma non ne ebbe la forza. Capì che avrebbe
dovuto dirigersi a riva, per non essere spinto in mare aperto, ma non
riusciva neanche a muovere un dito. Aveva disceso il fiume a cavallo
del tronco per un giorno e una notte, durante i quali aveva
completamente esaurito ogni risorsa fisica o mentale, ed ora era
ridotto a essere poco più di un vegetale. Era alla mercé del destino, e
non poteva fare niente per migliorare la sua situazione.
Lentamente,
la coscienza dell’ uomo tornò ad annebbiarsi. In un barlume di lucidità
realizzò che, per lo meno, sarebbe morto libero. Si sentiva sull’ orlo
di un baratro, e ormai era pronto a cadere, ma all’ improvviso venne
sollevato dal tronco. Due braccia lo cinsero alla vita e lo tirarono in
su, adagiandolo poi su una superficie dura ma liscia. Gli parve di
vedere alcune alte figure muoversi, poco più di ombre sullo sfondo
grigio-azzurrino del cielo, poi sprofondò nuovamente nel buio.


“Ero stato salvato da una nave degli Alti Elfi” continuò l’ uomo”Che mi
curarono e riuscirono a capire che venivo dall’ Impero. Mi portarono
qui, a Marienburg, con un piccolo convoglio. Questa è la mia storia.”
Il
conte della città, seduto sul suo alto scranno, guardò intensamente l’
uomo che aveva appena smesso di parlare. Questi era alto e abbastanza
robusto, anche se i segni delle sofferenze subite si intravvedevano
ancora sotto il semplice abito di stoffa che indossava. Aveva una barba
lunga e ispida e i capelli erano nelle stesse condizioni. Di certo non
si avvicinava neanche lontanamente all’ immaginario comune dell’ eroe.
Eppure quell’ uomo, di cui non sapeva neanche il nome, era scappato
dalle terre degli Elfi Oscuri, ed era il primo a esserci riuscito, per
quanto ne sapeva il conte.
“Non ricordo il tuo nome… potresti rammentarmelo?” domandò gentilmente il conte. Lo sguardo dell’ uomo si rabbuiò.
“Credo Daniel, signore.”
“Credi? Non ricordi il tuo nome?” chiese stupefatto il nobile.
“Ne sono abbastanza sicuro, signore.” replicò l’ altro. “Ma il cognome non lo ricordo” confessò Daniel. “Mi dispiace, signore.”
Il
conte scosse il capo, turbato. “Non importa, non importa. Sarai stanco,
sei stato condotto qui subito dopo lo sbarco. Puoi andare a riposare.
Chiedi di Wilhelm a qualche servo, lui ti assegnerà una stanza,
dopodiché potremo parlare del tuo futuro.”
Mentre il conte
cominciava a interrogare l’ Alto Elfo che aveva condotto fin lì Daniel,
questi abbozzò un inchino e se ne andò, ignorando gli sguardi che gli
venivano rivolti. Sguardi sospettosi, per lo più. L’ uomo attraversò
gli ampi corridoi del palazzo nobiliare senza avere la benché minima
intenzione di cercare Wilhelm, poi oltrepassò la maestosa entrata e
sbucò all’ aperto, nella piazza principale del quartiere benestante di
Marienburg. Attraversò il quartiere alto, dirigendosi verso i vicoli di
quello basso, molto vicino al porto. Le viuzze erano invase dalla puzza
degli escrementi, gettati dalle finestre delle cadenti abitazioni nei
canali di scolo a lato delle strade.
Daniel entrò in una locanda,
dall’ aspetto squallido sia all’ esterno che all’ interno. Aveva con se
un po’ di denaro, fornitogli dagli Alti Elfi per poter
sopravvivere qualche giorno.
Pagò
una stanza e due bottiglie di vino, poi salì le traballanti scale che
portavano alle camere, si chiuse dentro, stappò la prima bottiglia e
ingollò un generoso sorso.
Non aveva idea di come vivere, rifletté.
Come avrebbe potuto fare un lavoro qualsiasi, farsi una famiglia,
portare avanti una vita normale?
Lui non era più normale, e non lo sarebbe mai tornato.
Bevve
nuovamente. Non aveva intenzione di tornare presso il conte, perché in
quel caso, lo sapeva, sarebbe stato costretto a raccontare la sua
storia di terrore a una moltitudine di persone, e non era in grado di
sopportarlo. Qualsiasi ricordo connesso ai suoi sette anni di prigionia
recava con se la memoria del terrore, e gli lacerava l’ anima.
Maledì
gli Elfi Oscuri, odiandoli per quello che gli avevano fatto. Persino
dopo la sua fuga, gli spettri dei tormenti subiti dai Druchii
continuavano a
perseguitarlo, precludendogli una vita serena e un lavoro normale.
Continuò a bere finché il cervello non gli si annebbiò completamente, poi crollò a terra e si addormentò.

Al suo risveglio, si sentiva la testa spaccata in due. Ed era anche stato
derubato. Imprecando, si tirò faticosamente in piedi e tuffò la testa in un
catino
d’ acqua gelida posto in un angolo della stanza. Si sedette per terra
per qualche minuto, poi, quando gli parve che la testa dolesse un po’
meno, si alzò e aprì la porta. Scese lentamente le scale, maledicendosi
per la sua stupidità, e arrivò davanti al bancone, dove l’ oste stava
pulendo un bicchiere con uno straccio lurido. L’ oste, che era anche il
padrone della locanda, era un ometto corpulento, ben piantato, con il
mento velato da un’ ispida barba, e in quel momento ostentava un ghigno
canzonatorio rivolto verso Daniel. Quest’ ultimo lo fissò in silenzio,
e un’ ipotesi gli balenò in testa. Ipotesi che si trasformò in certezza
quando vide l’ oste mollare straccio e bicchiere per giocherellare con
un mazzo di chiavi, chiaramente quelle delle camere dei clienti. Il
padrone della locanda stava provocando Daniel, indicandosi come ladro,
e quest’ ultimo non fece attendere la sua reazione. Afferrò rapidamente
l’ uomo per la gola e sibilò: “Fuori i miei soldi, bastardo”.
Aveva
appena finito di parlare, quando ricevette il primo pugno: due uomini,
sogghignando, erano usciti da una stanzetta nascosta da una tenda e gli
si erano gettati addosso.
Il primo colpo lasciò Daniel lungo disteso, e prima che potesse rialzarsi gli
furono
sopra. Lo presero a calci e a pugni, poi lo buttarono di peso in mezzo
alla strada e continuarono a massacrarlo. L’ oste non si unì al
pestaggio, ma rimase a osservare ridendo di gusto. Gli sporadici
passanti si mostravano ciechi e sordi, a parte uno che tirò un calcio
in faccia a Daniel e sorrise al padrone della locanda, che chiaramente
era temuto e rispettato nei bassifondi. Quando le guardie del corpo
cominciarono a stancarsi, spinsero la loro vittima in un vicolo, a
calci, e se ne andarono ridendo allegramente.
Daniel restò
immobile per più di un’ ora, completamente svuotato da ogni sensazione
che non fosse il dolore. Poi, lentamente, si accorse dell’ odio che
provava verso il locandiere, verso i picchiatori, verso i passanti,
verso tutti. L’ odio crebbe rapidamente, alimentato dal dolore fisico e
dalla frustrazione interiore, e gli diede la forza di alzarsi. Notò una
bottiglia vuota nel vicolo. La prese, la spezzò contro un muro e si
diresse verso la locanda. Il corpo gli doleva, ma l’ odio era troppo
grande
e non gli permetteva di lasciarsi vincere dalla sofferenza
fisica. Era furioso, ma dentro di lui stava ringraziando l’ oste e i
picchiatori, perché avevano dato un senso, anche se subitaneo, alla sua
vita: la vendetta.
Quando ormai era a pochi passi dalla porta
della taverna, questa si aprì, e ne uscì una delle due guardie del
corpo. Stava ridendo, ma vedendo Daniel, con il volto gonfio e
insanguinato e i capelli e la barba sporchi che gli conferivano un
aspetto selvaggio, si pietrificò. Un istante dopo, le affilate punte di
vetro della bottiglia spezzata gli penetrarono nel collo. L’ uomo tentò
di strillare, ma dalla bocca gli uscì solo un gorgoglio misto a sangue.
Il picchiatore crollò in avanti, scosso dai tremiti, e Daniel ringhiò.
L’ uccisione gli aveva dato nuova forza. Prese al moribondo il suo
coltello e piombò all’ interno. L’ oste e la sua altra guardia del
corpo davano le spalle alla porta, per cui non si erano accorti della
fine del loro complice, e Daniel poté coglierli di sorpresa. Ruggendo,
entrò nel piccolo locale, sorpassò un paio di tavoli, saltò oltre una
sedia e affondò il coltello fino all’ impugnatura nel petto del secondo
picchiatore, che si era appena voltato. L’ uomo si afflosciò
lentamente, fissando sbigottito il manico del pugnale che gli sporgeva
dal petto. L’ oste capì in un secondo cosa stava accadendo e si lanciò
verso l’ uscita, ma Daniel gli volò addosso, simile ad una belva, e
rotolarono entrambi per terra. Daniel si trovò schiacciato dal
locandiere, che sogghignò, estrasse una daga e vibrò un colpo dall’
alto verso il basso, mirando al cuore dell’ altro. Quest’ ultimo, però,
riuscì a liberare il braccio sinistro dal peso dell’ avversario,
afferrandone il polso destro. I due iniziarono a sbuffare e ad
ansimare, ma l’ oste spostò tutto il suo peso sul braccio destro, e la
lama del coltello calò lentamente, avvicinandosi al cuore di Daniel,
che tentava rabbiosamente di reagire senza però riuscire a migliorare
la sua posizione. I loro visi quasi si toccavano, nello sforzo della
lotta, e Daniel giocò il tutto per tutto. Allungò fulmineamente il
collo e morse il naso dell’ oste, che strillò e si dimenò, Per tutta
risposta, Daniel serrò le mascelle e scrollò il capo, imitando il
comportamento dei cani quando uccidevano i topi, e l’ avversario
strillò ancora di più. Daniel, incurante dei colpi che l’ altro gli
sferrava
con il pugno sinistro, afferrò la faccia dell’ oste con la mano
sinistra e la spinse lontano dalla sua, provocando nuove urla. In preda
al
dolore, il locandiere lasciò andare la sua arma per sferrare un
pugno a Daniel, ma questi continuò a serrare la mandibola, mentre con
la mano sinistra tastava il terreno in cerca dell’ impugnatura della
daga. La trovò, e un attimo dopo la lama affilata penetrò nel costato
dell’ oste. Daniel continuò a stringere il naso dell’ avversario, che
ormai sanguinava abbondantemente, e affondò di nuovo la daga, stavolta
nella schiena della vittima, che urlava in preda al panico. Daniel
fissò il suo sguardo in quello del moribondo, e vide l’ angoscia e la
disperazione sul volto di questi. L’ urlo di orrore scemò e si
trasformò in un sospiro strozzato, poi anche quello si esaurì, mentre
lo sguardo dell’ oste diveniva vitreo.
Daniel si tolse di dosso il
cadavere e si alzò, mentre la sua furia scemava lentamente. Si rammentò
di come, la sera prima, la vita gli fosse parsa senza senso, e fissò i
due cadaveri nella stanza, comprendendo che la morte aveva dato senso
alla sua vita, e finalmente capì chi era. O meglio, chi era diventato.
Era un assassino.
Uscì dalla locanda, e non si stupì nel vedere che nessuno prestava attenzione a lui o al cadavere steso davanti alla porta.
Daniel
alzò il viso al cielo, poi si diresse verso la città alta, verso l’
unico posto in cui un assassino sarebbe stato bene accetto.
Si diresse verso le caserme dell’ esercito imperiale.


Epilogo

Daniel
osservò per un attimo le piume sul suo elmo, agitate dal vento, poi
guardò a valle. I pelleverde facevano un gran baccano, ma non si
muovevano dalle pendici di quella collina, sulla cui cima si era
posizionato l’ esercito imperiale, molto più silenzioso.
Le bandiere
dei vari reggimenti garrivano fiere al vento, e la vista dei cannoni
posizionati sulla cima dell’ altura infondeva coraggio negli uomini.
Tutto
a un tratto, squillò limpida una tromba, e i soldati bevvero un ultimo
sorso d’ acqua, aggiustarono le cinghie degli scudi o, come Daniel, si
rimisero l’ elmo.
Alla base della collina, gli orchi cominciarono
ad avanzare, e parve che un’ onda anomala stesse marciando verso lo
schieramento imperiale. Daniel si trovava sul lato sinistro dello
schieramento umano, abbastanza lontano dai cannoni, ma sobbalzò
ugualmente quando questi, con un rombo assordante, fecero fuoco contro
i pelleverde in marcia. Daniel vide distintamente una palla rimbalzare
sul terreno e colpire in pieno un reggimento di goblin, dissolvendone
diversi ranghi, causando acuti strilli e, gli sembrò, formando una
indistinta nebbiolina rossa sopra le teste dei nemici. La maggior parte
dei colpi, però non fu così efficace. Molti affondarono nel terreno,
altri colpirono troppo addietro nelle fila degli orchi e, benché
procurassero non pochi danni, ai soldati schierati sul pendio parvero
sprecati. I pelle verde salivano velocemente la collina, accompagnati
da una cacofonia di suoni, dalle grida di guerra ai pesanti rimbombi
dei tamburi. I cannoni fecero fuoco di nuovo, poi toccò agli
archibugieri, che spararono una compatta slava di piombo verso il
nemico. La visuale dei tiratori fu subito oscurata dal fumo delle loro
stesse armi, ma agli imperiali in posizione più avanzata sembrò che
tutta la prima fila del nemico si fosse ribaltata all’ indietro. A
Daniel sembrava impossibile che qualcosa potesse sopravvivere a quel
fuoco di sbarramento, ma i pelleverde erano un’ orda sterminata, e si
avvicinarono sempre più allo schieramento umano, ignorando che cadeva.
Alcune unità di arcieri si fermarono e iniziarono a bersagliare le
linee imperiali, facendo contemporaneamente il possibile per non
intralciare l’ ostinata marcia dei compagni. La maggior parte delle
frecce si impiantò sugli scudi imperiali, ma qua e là si udirono delle
grida di dolore, segno che qualche danno lo avevano prodotto. Daniel
restò accovacciato sotto il suo scudo, trovando snervante quell’
attesa. Gli vennero una quantità di stupidi dubbi che, benché
immotivati, distrassero la sua mente dalla paura. Sentiva il frastuono
prodotto dall’ avanzata dei pelleverde, sentiva gli ordini urlati a
gran voce ai soldati imperiali, sentiva perfino il tonfo sordo delle
frecce che si piantavano a terra o negli scudi, ma non si arrischiò a
far sporgere la testa per sbirciare. Attese, mentre la tensione
diveniva palpabile. Uno spadaccino, alla sua destra, cominciò a
singhiozzare, un altro imprecava ad altra voce, molti pregavano.
Daniel
non aveva nessuno da pregare, perché tutti perdevano la fede dopo
qualche mese di schiavitù a Naggaroth, per cui si aggrappava all’ odio
che gli albergava dentro, e che era pronto a esplodere in qualsiasi
momento. Lasciò che il suo rancore gli scorresse nel corpo, e
inconsapevolmente cominciò a ringhiare. Un suo compagno lo sentì e,
benché tutti trovassero inquietante quell’ uomo dalla lunga barba, si
sentì meno impaurito, rassicurato inconsciamente dalla rabbia di Daniel.
All’
improvviso, la pioggia di frecce si esaurì, il suolo cominciò a tremare
e un ordine venne urlato lungo tutta la linea imperiale: “State pronti,
uomini!
Caricano!”
Senza più la minima traccia di apprensione,
Daniel si alzò e sguainò la spada, ruggendo il suo odio. La sua unità
urlò con lui, poi il suo reggimento, ed infine tutto l’ esercito
risuonò di un potente grido di sfida che scacciò la paura dagli animi
degli uomini.
Preparandosi all’ impatto, Daniel scoprì di essere nel suo elemento, lì, su quella collina, nella guerra.
Era un soldato.
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