Referendum tradito, la Consulta non la beve. Dichiarato illegittimo l'art.4 della 138/2011
La Suprema Corte ha giudicato incostituzionale l'articolo 4 della legge 138/11. L'aveva varata Berlusconi, ricopiando interi passaggi della legge abrogata grazie al referendum sull'acqua. Una truffa. Rivisitata da Monti che alla parola "privatizzazione" aveva sostituito "liberalizzazione". Il ricorso, avanzato dalla Regione Puglia, era partito da un appello pubblicato e sostenuto dal manifesto.
Per una volta occorre usarla, la parola vittoria. Piena, cristallina, senza ombre. Il voto popolare, la decisione presa da 27 milioni di italiani non può più essere ignorata con vere e proprie norme truffa. La Corte costituzionale ieri ha riportato la lancetta del tempo al 13 giugno dello scorso anno, quando nelle piazze italiane i movimenti esultavano di fronte a un risultato straordinario e senza precedenti. Avevamo appena votato quattro quesiti, ma per tutti quell'appuntamento aveva un nome, uno spettro da respingere: privatizzazione. Ovvero la cessione di quello che le stesse multinazionali chiamano «l'essenziale per la vita» alle corporation, che, cariche dei soldi della finanza tossica, erano pronte a superare le Alpi, conquistando comune dopo comune il paese.
Fu una vittoria subito tradita quella dei referendum. Gli sherpa invisibili, gente tipo Valter Lavitola, si misero in moto subito dopo l'annuncio del risultato. Bloccare le multinazionali, fermare giganti del calibro di Acea, rispedire al mittente le offerte di gestori di acqua e rifiuti come Veolia, tutto questo era uno scenario inaccettabile per chi dopo poco si sarebbe nascosto dietro lo spread e la crisi finanziaria. Il primo quesito dei quattro referendum era in fondo chiaro: accettate voi l'obbligo di privatizzare buona parte della vostra vita quotidiana? Volete che i rifiuti, i trasporti locali, gli acquedotti, gli asili nido, le farmacie comunali e quei servizi che i comuni devono garantire a tutti divengano il business del secolo, con fatturati garantiti per legge? Questa era la questione, semplice e diretta. Una semplicità che alla fine ha convinto la maggioranza del paese a votare contro la legge Ronchi-Fitto, quel pacchetto uscito dalla mente di Giulio Tremonti due anni prima, pronto a cedere un pezzo del paese a chi offriva di più.
Il 13 agosto, quando il differenziale con i bond tedeschi iniziava a far ballare il governo di Berlusconi, arriva silenziosamente la controffensiva. Una truffa, tanto per usare anche qui le parole giuste. La legge 138, all'articolo quattro riproponeva parola per parola quella stessa norma appena abrogata. Solo l'acqua, per il momento, veniva salvata, più per un timore di una rivolta che per scelta. Per l'intero universo dei servizi pubblici locali, dai rifiuti al trasporto, la ricetta proposta in fondo era la stessa. Vendere, subito e senza tante storie. Il testo approvato la scorsa estate era imbarazzante: interi periodi erano stati semplicemente copiati e incollati dalla legge abrogata, cambiando appena la sequenza. Il governo in fondo sperava nell'ultima estate prima della crisi, nel mare e nel sole, e in quel silenzio di gran parte della politica - a cominciare dal Pd - che in fondo quei referendum li avevano dovuti sopportare. Ad avvallare tutto fu lo stesso presidente Napolitano, padre - ma è sicuramente solo un caso - di Giulio, l'avvocato consulente di Acea che poco prima aveva preparato un lungo e motivato parere per spiegare ai gestori dell'acqua come evitare le conseguenze del voto popolare. Non fece una piega il presidente, firmò, anche sapendo che il governo aveva i giorni contati.
Le norme che volevano uccidere il referendum hanno avuto nei mesi successivi un successo insperato. Quando la città di Roma si riversò nelle piazze per festeggiare la caduta di Berlusconi non poteva immaginare che Mario Monti in fondo aveva una mission chiara: garantire tutte le scelte liberiste pensate da Tremonti e indicate, nero su bianco, dalla commissione europea e dalla Bce. Cambiarono il nome, parlando di liberalizzazioni, parola che suonava bene soprattutto per il centrosinistra, memore delle lenzuolate di Bersani. E nel primo pacchetto «Salva Italia» infilarono lo stesso articolo 4 varato il 13 agosto. Anzi, per essere sicuri che tutti i sindaci si allineassero, i ministri tecnici aggiunsero anche il carico da novanta del commissariamento: i ribelli avrebbero perso i propri poteri.
Ad ottobre il manifesto aveva lanciato un appello, firmato da Ugo Mattei e Alberto Lucarelli, chiedendo a quelle regioni che avevano appoggiato il referendum di sollevare un conflitto di attribuzione davanti ai giudici costituzionali. Ci avevano creduto i due giuristi, ci aveva creduto questo giornale e, dopo ventiquattro ore, la proposta era stata accolta da Nichi Vendola. Così è nata la decisione di ieri della Consulta, dimostrando che la sinistra, quando si batte per i beni comuni, è vincente.
Ora la regione Puglia potrà bloccare le norme per la cessione ai privati di parte dei servizi strategici, come i rifiuti e il trasporto pubblico locale. La spada di Damocle dell'obbligo per legge che tanto temeva il governatore Vendola non esiste più e la politica potrà ritornare a scegliere, a contare, senza subire le minacce del mercato che si nasconde, neanche troppo, dietro il tecnico Monti.
Fonte: il manifesto
Acqua e servizi pubblici, bocciatura della Consulta per le liberalizzazioni post referendum
Le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali scritte nella manovra-bis del Ferragosto 2011 sono la copia, ancor più decisa rispetto all'originale, di quelle abrogate per referendum solo due mesi prima, quindi sono illegittime.
Sulla base di questo ragionamento, tanto attendibile nei contenuti quanto deflagrante negli effetti, la Corte costituzionale ha assestato ieri (sentenza 199/2012: presidente Quaranta, relatore Tesauro) la bordata più dura all'ultima manovra anti-spread dell'estate scorsa (l'altro colpo arriva sui costi della politica, con la sentenza 198/2012), dando ragione al gruppo di sei Regioni (Emilia-Romagna, Marche, Umbria, Lazio, Puglia e Sardegna) che erano partite all'attacco della nuova normativa. A salvare l'intervento non è bastata l'esclusione espressa del «servizio idrico integrato», perché i referendum abrogativi di giugno si erano concentrati sull'acqua solo per la propaganda, ma in realtà avevano cancellato tutte le liberalizzazioni contenute nel primo tentativo del 2008. Ancor meno utile è stata la rubrica della norma, che parlava di «adeguamento al referendum popolare». Riproporre norme appena cancellate dal voto, per di più a soli 23 giorni dal decreto di abrogazione, non si può.
Gli effetti della decisione Anche per questa ragione, la sentenza agisce di machete più che di bisturi, e dichiara l'illegittimità dell'articolo 4 del Dl 138/2011 «sia nel testo originario che in quello risultante dalle successive modificazioni», compresi i ritocchi apportati da ultimo con il «Cresci-Italia» del Governo Monti (articolo 53 del Dl 83/2012). Addio, quindi, ai limiti economici per gli affidamenti in house, preclusi per servizi di valore superiore ai 900mila euro annui (diventati poi 200mila con il decreto liberalizzazioni 1/2012 del Governo Monti), all'obbligo per gli enti locali di effettuare analisi di mercato entro il 13 agosto prossimo per giustificare l'attribuzione di diritti di esclusiva (già si parlava di una proroga da inserire nella legge di conversione al decreto di revisione della spesa) e, ovviamente, a tutte le norme dei provvedimenti attuativi. Ancora una volta, quindi, cadono le regole che provavano a chiudere le porte girevoli fra la politica e le società partecipate, impedendo agli ex amministratori locali di sedere nei consigli di amministrazione delle società.
Le reazioni
Immediata l'esultanza della sinistra referendaria, a partire dal presidente della Puglia, Nichi Vendola, che sull'onda della sentenza chiede di cancellare subito anche la tagliola prevista dal decreto legge sulla revisione di spesa per le società strumentali della Pubblica amministrazione. Secondo gli operatori, come spiega il direttore generale di Federutility, Adolfo Spaziani, la sentenza è l'occasione per «cambiare rotta e pensare a normative serie di settore, come si è fatto con energia e gas, per premiare chi è efficiente e colpire chi non lo è: bisogna smetterla con questi continui tira e molla normativi, con i quali si vuole fare di più ma si finisce per fare di meno». Anche l'associazione dei Comuni, per bocca del suo vicepresidente Alessandro Cattaneo, chiede «regole certe subito», mentre a livello locale la pronuncia rinfocola le polemiche contro i processi di cessione di quote, a partire dalla romana Acea che si era appena incagliata al Consiglio di Stato. Cancellata tutta l'architettura legislativa che si era accumulata con gli ultimi provvedimenti, la bussola torna per ora a essere la normativa europea (richiamata dagli stessi giudici costituzionali), che permette l'affidamento in house a tre condizioni: la società affidataria deve avere capitale interamente pubblico e svolgere la quota prevalente della propria attività con l'ente affidante, che a sua volta deve esercitare su questa un controllo «analogo» a quello assicurato sui propri sui propri uffici. Naturalmente nulla vieta nuove leggi, anche perché la stessa Corte costituzionale in passato ha chiarito che «il legislatore conserva il potere di intervenire nella materia oggetto del referendum», a patto che l'intento non sia di «far rivivere la normativa abrogata». Prima di tutto, però, occorrerà chiarire bene alcuni punti rimasti aperti, come la sottoposizione delle società in house ai vincoli del Patto di stabilità (si attende il regolamento attuativo), prevista sia all'articolo 4 (abrogato) sia al 3-bis (sopravvissuto) della manovra estiva.
Fonte: Il Sole 24 Ore