Dietro l'amicizia tra il Cavaliere e il Rais
Un'analisi dei rapporti privilegiati tra Tripoli e Roma alla luce della guerra in atto
Non è ancora chiaro come si concluderà la guerra civile in atto in Libia. È però chiara l'ambiguità con cui alcuni Paesi occidentali hanno trattato con il regime di Gheddafi. Ha fatto tra l'altro molto discutere l'ostentata amicizia tra il Rais libico ed il premier italiano Berlusconi. Su tale tema è uscito in questi giorni il libro del giornalista Giampiero Gramaglia (dall'ottobre dello scorso anno Gramaglia dirige a Bruxelles l'Agence Europe, agenzia che dal 1953 si occupa dell'informazione sull'integrazione economica e politica europea): «Complici. La relazione pericolosa tra l'Italia e il regime di Gheddafi», pubblicato da Editori riuniti. Abbiamo sentito l'autore del libro per una valutazione sui retroscena dell'attuale crisi libica.
■ Quella del premier italiano Berlusconi con Gheddafi può essere definita un'amicizia pericolosa. Non è però la prima volta che politici occidentali si tappano il naso e stringono la mano a leader poco raccomandabili per interesse economico.
«È verissimo che spesso per Realpolitik o semplicemente per interessi economici, ed in particolare nell'area del Nord Africa per interessi energetici, i Paesi occidentali in misura maggiore o minore, a seconda delle relazioni bilaterali, si tappano il naso e fanno finta di non vedere quello che c'è dietro ai regimi con cui hanno stretti rapporti. Del resto tutto quello che sta succedendo dall'inizio dell'anno in Nord Africa ne è la prova. La Francia non può aver scoperto da un giorno all'altro che Ben Ali non è un campione di democrazia, così come gli Stati Uniti non possono aver scoperto da un giorno all'altro che Mubarak non è proprio un difensore dei diritti dell'uomo nel suo Paese. Eppure questo accade. Quello che secondo me ha contrassegnato il rapporto dell'Italia con la Libia, è che esso è andato al di là di questi eventi di Realpolitik o di commistione tra interessi economici e rapporti tra Paesi. Nel caso italiano vi è stata da una parte la personalizzazione del rapporto, che è un po' nello stile e nello spirito del presidente del Consiglio Berlusconi, e dall'altra vi è stata una certa teatralizzazione di questa amicizia tra Roma e Tripoli con gesti, come il bacio dell'anello di Gheddafi da parte di Berlusconi, e segnali di accoglienza ed intesa che forse non era necessario usare. Non c'è bisogno di far piantare la tenda a Gheddafi a Villa Panfili o di consentirgli di tenere concione con centinaia di giovani donne italiane per garantire la bontà delle relazioni economiche tra l'Italia e la Libia; c'erano già abbastanza elementi di interesse. Quindi questo ha fatto sì che questa amicizia pericolosa, come lei l'ha definita, fosse poi difficile da gestire nelle sue conseguenze quando si è arrivati a un momento di crisi che l'Italia non aveva previsto. Va del resto detto che neanche gli altri Paesi occidentali avevano previsto quanto successo in Tunisia, Egitto e negli altri Paesi della regione».
Ma cosa si nasconde dietro al fatto che a un certo punto, quando la crisi libica aveva già raggiunto livelli allarmanti, Berlusconi si sia ancora sbilanciato a dire ‘mi dispiace per Gheddafi'? È la testimonianza di una sincera amicizia con il Rais libico o di una stupidità politica?
«Io non penso che una persona come Berlusconi che, nel bene o nel male è comunque al vertice di un Paese come l'Italia, non certo trascurabile sulla scena europea, possa essere ingenuo o improvvido fino a questo punto. Però è chiaro che l'atteggiamento italiano nei confronti della Libia, e in particolare le sortite del presidente del Consiglio, ha mostrato un alternanza di alti e bassi. L'Italia è stato forse il Paese che per ultimo ha mollato Gheddafi. Ancora a fine febbraio, nei giorni in cui sembrava che la caduta del regime libico fosse imminente, abbiamo avuto la battuta del presidente del Consiglio: ‘Non ho chiamato Gheddafi per non disturbarlo', e poi, quando già l'Italia aveva sottoscritto le dichiarazioni europee nelle quali si diceva che Gheddafi non poteva più essere considerato un interlocutore, e che i nuovi interlocutori erano i suoi antagonisti, vi è stata la sortita del dispiacere per quanto stava accadendo a Gheddafi. Certo ci può essere un dispiacere sul piano personale, però l'aver testimoniato con enfasi eccessiva l'amicizia per un personaggio comunque discutibile diventa poi un handicap. Non dimentichiamoci che Gheddafi è un uomo che, a parte la gestione del potere all'interno del suo Paese di cui oggettivamente sappiamo poco (è solo noto che i libici hanno una ricchezza pro capite più elevata degli altri popoli della regione), è anche l'uomo che sta dietro vari attentati internazionali. È l'uomo che sta dietro la strage di Lockerbie».
A proposito di Lockerbie: nell'agosto del 2009 le autorità scozzesi hanno autorizzato, per ragioni umanitarie, la scarcerazione e il rimpatrio di Abdel Basset al-Megrahi, il libico condannato per l'attentato del 1988 costato la vita a 270 persone. In quell'occasione il governo britannico fu accusato di aver scarcerato il terrorista libico per ottenere da Tripoli concessioni per lo sfruttamento di giacimenti petroliferi.
«Certo, lo stesso premier britannico, all'epoca era Gordon Brown, alla fine finì per ammettere che c'era stato un baratto tra interessi economici ed una forzatura della giustizia. All'inizio, come si ricorderà, i britannici si nascosero dietro a clausole e procedure della giustizia scozzese che aveva concesso la scarcerazione per motivi umanitari (venne presentato come malato terminale di cancro n.d.r.). Ma poi Brown ammise che vi era stata un'accondiscendenza nei confronti della Libia per garantire interessi economici britannici. Certo, si tratta di un atteggiamento riprovevole, ma il fatto della scarcerazione del terrorista avrebbe ancora potuto essere mandato giù se il terrorista libico non fosse poi stato accolto a Tripoli come un eroe. Eravamo nel 2009 e l'Italia aveva già firmato il trattato di amicizia con la Libia. Secondo me sono questi fatti che devono far riflettere sul modo di rapportarsi personalmente con Gheddafi. Il leader libico non è solo l'uomo che ha concepito, ordinato, autorizzato Lockerbie, ma è anche la persona che ha ricevuto Abdel Basset al-Megrahi, il cittadino libico riconosciuto come autore di quell'attentato, come un eroe al suo ritorno in patria».
Quindi Berlusconi è in buona compagnia, a livello di vertici politici internazionali, nel frequentare cattive compagnie per puro interesse economico.
«Per questo tipo di comportamenti direi proprio di sì, anche se poi Berlusconi ha aggiunto un elemento personale che ai tempi Gordon Brown si era guardato bene dal tenere».
Gli investimenti della Libia in Italia sono sostanziosi, così come gli interessi italiani in Libia. Ma questo non è solo il frutto dell'amicizia tra Berlusconi e Gheddafi.
«Le buone relazioni economiche energetiche e finanziarie, al di là dei momenti di tensione che possono esserci stati tra i due Paesi, sono praticamente una costante della politica estera italiana in Libia. L'ENI è in Libia dagli anni Cinquanta. La sua posizione di forza in questo Paese del Nord Africa non mi sembra intaccata da quello che sta accadendo perché ci sono state dichiarazioni positive nei confronti dell'ENI da parte del regime ma anche da parte degli insorti. È vero che Berlusconi in tempi recenti ha testimoniato a Gheddafi un'amicizia sopra le righe, ma è anche vero che il Rais libico ebbe, mi pare nel 2005 o 2006, parole di grande elogio per il predecessore di Berlusconi alla guida del governo, ossia Romano Prodi, che era stato anche alla guida della Commissione europea. E se vogliamo andare indietro nel tempo, va ricordato che nel 1985 quando gli Stati Uniti bombardarono Tripoli per ritorsione nei confronti della Libia dopo un attentato a Berlino, attribuito ad agenti libici, nel quale era morto un marine, l'Italia venne informata all'ultimo momento per evitare che Roma potesse avvertire i libici. Insomma le buone relazioni tra Tripoli e Roma, intessute da rapporti di affari, sono una costante nel tempo. Certo, la firma del trattato di amicizia, l'intensità delle relazioni personali, le grandi missioni diplomatiche ma anche di affari, con centinaia di esponenti della Confindustria italiana al seguito delle missioni in Libia, negli ultimi due anni hanno incrementato le relazioni tra i due Paesi. Le cito una cifra che potrebbe essere imprecisa; tra il 2009 e la fine del 2010 le presenze di imprese italiane in Libia sono salite da un po' meno di 100 a 113; quindi con un aumento di circa del 20 per cento nel giro di un anno».
Il Comitato nazionale transitorio martedì scorso ha promesso che una volta al potere rispetterà gli accordi siglati tra Roma e Tripoli e le concessioni all'ENI. Si tratta di un modo per assicurarsi il sostegno di Roma in questa delicata fase?
«Secondo me in questo momento non possono spaventare i loro interlocutori che sono anche potenziali sostenitori. Quindi senz'altro di fronte ad un atteggiamento di Roma che ora non è loro ostile, non rispondono creando timori o allarme a Roma. Del resto il petrolio dovranno continuare a venderlo, i contratti esistono e sono contratti tra uno Stato e un'impresa; non tra un regime e un'impresa. Per cui anche legalmente possono continuare ad avere un loro valore. Poi vedremo, una volta che vi sarà una nuova Libia come interlocutore, scopriremo che qualcosa ci costerà più caro di quello che ci è costato finora. Magari avremo una sovrattassa Gheddafi da pagare su qualche fronte, o magari saremo talmente abili nel ricucire o nello stabilire nuove relazioni che ci faremo perdonare anche questi incidenti di percorso. Comunque in questo momento mi sembra che le dichiarazioni che fanno i leader degli insorti servano ad evitare che vi sia allarme, tensione od ostilità nei loro confronti».
Vi è chi sostiene che l'appoggio della comunità internazionale alla rivolta libica è dettato solo da interessi economici. Lei come la vede?
«Direi che ci sono senz'altro dei motivi economici. Il petrolio e il gas libico possono interessare a tanti Paesi. Però se c'è un elemento di ipocrisia e di calcolo nell'intervento in Libia esso sta nel fatto che la Libia è purtroppo uno dei tanti Paesi di questo mondo dove i diritti dell'uomo sono calpestati e la democrazia non esiste. Allora è più facile intervenire in Libia oggi che intervenire in altri Paesi dove pure la situazione interna è analoga. Vi è quindi questo elemento di ipocrisia e di calcolo, di lavarsi un po' la coscienza con un intervento che non pare comportare rischi di estensione del conflitto, di esportazione del conflitto; anche se qualche rischio di terrorismo di Stato ci può essere, visti i precedenti di terrorismo di Stato condotto dalla Libia. Però è senz'altro meno rischioso un intervento armato in Libia che altrove».
Eppure in passato Gheddafi era ritenuto ben più pericoloso dalla comunità internazionale.
«A tale proposito va ricordato un elemento di responsabilità internazionale nei confronti della Libia che ci riporta indietro nel tempo per una decina d'anni. Una responsabilità che ricade soprattutto su Stati Uniti e Gran Bretagna. Si tratta dello sdoganamento, ottenuto con un piatto di lenticchie, di Gheddafi da pària messo ai margini della comunità internazionale, accusato di collusione col terrorismo, poi provata nell'aula di un tribunale nel processo per la strage di Lockerbie, ad alleato nella guerra contro il terrorismo (dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 n.d.r.). E questo semplicemente perché Gheddafi si mostrò più furbo di Saddam Hussein dichiarando di rinunciare a programmi nucleari e a programmi di sviluppo di armi di distruzione di massa. E in cambio di questo impegno Gheddafi ottenne da Bush e Blair e dai loro alleati, tra cui figurava anche Berlusconi, lo sdoganamento e la riammissione nella comunità internazionale».
Fonte: Corriere del Ticino, 1.4.2011