Il paradosso del negazionismo serbo
In molti Paesi del mondo non è lecito negare il genocidio avvenuto in Bosnia Eppure nei luoghi dell'eccidio lo si può fare e lo si fa ancora impunemente
L'arresto, in maggio, dell'ex generale dei serbi di Bosnia Ratko Mladic e la sua estradizione all'Aja per essere giudicato dal Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia (TPI) è stato salutato come una vittoria della giustizia. In Europa, a New-York, ovunque, si è parlato di un «giorno storico per la giustizia internazionale», come l'ha definito il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon perché rappresenterebbe l'arresto di uno dei presunti responsabili dell'esecuzione, nel 1995, di più di 8.000 bosniaci musulmani a Srebrenica. Un giorno di giustizia ovunque, tranne che nei luoghi dell'eccidio, dove le conseguenze della politica dei criminali giudicati a L'Aja si fanno ancora sentire.
■ Popolata nel 1991 da una maggioranza di bosniaci musulmani (più del 70%), la città di Srebrenica dipende oggi dalla Republika Srpska, la Repubblica Serba, una delle due entità della Bosnia-Erzegovina create dagli accordi di pace di Dayton firmati nel 1995. Attualmente, secondo diverse fonti, è abitata da quasi l'80% di serbi, segno che il diritto al ritorno dei profughi, pure garantito dagli accordi di pace, non è stato realizzato. Con il passare del tempo ciò che colpisce oggi l'osservatore, non è l'oblio, ma la negazione dei fatti da parte di certi politici. In linea di principio, stabilendo l'andamento dei fatti, organizzazioni come il TPI o la Corte penale internazionale dovrebbero favorire il riconoscimento del genocidio di Srebrenica. Tuttavia, mentre in molti Paesi del mondo [...] non è legittimo negare il genocidio, sul posto si può impunemente affermare che nessun «genocidio» ha «mai avuto luogo».
Non si impedisce di affermarlo, per esempio, a Milorad Dodik, presidente della Repubblica Serba. In campagna elettorale, il primo settembre del 2010, durante un meeting politico a Srebrenica stessa, Dodik proclamava che «non c'è stato genocidio qui e noi non accetteremo che ci sia stato un genocidio, perché non è un genocidio». A Srebrenica, ripete in pubblico Dodik, sono stati commessi «crimini», ma nessun «genocidio».
Un passato comune introvabile.
A più di 16 anni dalla fine dei combattimenti, questo piccolo Paese (51.000 km2 [...]) il cui futuro dipende dalla capacità e della volontà degli ex nemici di stabilire e riconoscere una storia comune, si trova sempre diviso tra interpretazioni e progetti politici completamente diversi. Nel 2009, a causa dell'opposizione dei deputati serbi, nel Parlamento bosniaco non era stato possibile adottare un progetto di legge che mirava a penalizzare «la negazione, la minimizzazione, la giustificazione o l'approvazione» di «genocidi» o di «crimini contro l'umanità». [...]
Il 15 gennaio 2009 il Parlamento europeo ha proposto «il riconoscimento, da parte del Parlamento, dell'11 luglio come «giornata del genocidio di Srebrenica».
Tragica constatazione
È però nella stessa Bosnia che il bisogno di un simile riconoscimento sembra vitale per i superstiti. Lo hanno dimostrato chiaramente le reazioni all'adozione, da parte del Parlamento della Serbia, nel 2010, di una risoluzione che evitava accuratamente il termine di «genocidio». La Serbia condannava allora il «crimine» commesso contro la «popolazione bosniaca a Srebrenica nel luglio 1995» come «definito dalla Corte penale internazionale», che utilizza, lei, il termine di «genocidio». Questa dichiarazione «rappresenta molto per la Serbia ed il suo establishment politico», commentava il politologo bosniaco Sacir Filandra. «Per la Bosnia e le vittime del genocidio non significa niente» (Radio Free Europe, 30 marzo, 2011). Una constatazione tragica, mentre la Bosnia sembra attraversare la sua più grave crisi dalla fine della guerra.
L'INTERVISTA ■ SEMSO SALIHOVIC (ex comandante dell'esercito bosniaco)
«A Srebrenica 8.372 morti, mi dispiace non essere stato il numero 8.373»
■ «Sono contento di sapere che il principale responsabile dei massacri commessi dal 1992 al 1995 è stato arrestato, ma sono triste che sia accaduto così tardi. Infatti questo arresto risveglia il mio dolore. Che cosa mi può dare il fatto di vederlo, vivo, col suo corpo? Il corpo dei miei non esiste più da molto tempo. Ci sono stati 8.372 morti a Srebrenica. Oggi mi dispiace di non essere il numero 8.373.» Semso Salihovic, ex comandante dell'esercito bosniaco, commenta l'arresto, in maggio, di Ratko Mladic, l'ex generale dei serbi di Bosnia, incolpato di genocidio per l'omicidio di più di 8.000 bosniaci musulmani nel luglio 1995 a Srebrenica. Questo superstite, che oggi vive a Ginevra, ha scritto nel 2008 un libro dal titolo evocatore: «Non dimenticare mai Cerska» («Nikada ne zaboravi Cersku»), dal nome della zona di cui era responsabile al tempo della guerra.
Lotta contro l'oblio
Racconta la sua guerra ed esorta i superstiti a lottare contro l'oblio: «La mia paura dell'oblio è più grande di tutte le paure che sono forzato a ricordare». Racconta la caduta della città, l'11 di luglio 1995, e la «marcia della morte» che segue. Semso Salihovic ha partecipato alla formazione della colonna di quelle 15.000 persone che allora scelsero di cercare di raggiungere la città di Tuzla a piedi, invece di recarsi al campo dei caschi blu olandesi dove, come lo si sarebbe capito poi, la morte aspettava migliaia e migliaia di loro.
Un addio scritto nel sangue
Aveva percorso più di 80 chilometri prima di essere gravemente ferito da un tiro di granata. Quando si era svegliato era circondato da sette cadaveri. La gola straziata, incapace di pronunciare una parola, aveva utilizzato il proprio sangue per scrivere col dito, sulla mano, un messaggio d'addio ai compagni. «Poi muoio». Sono questi i ricordi del comandante, che sarebbe poi «rinato» dieci giorni più tardi in un letto dell'ospedale di Tuzla. Da allora ha dovuto affrontare una quindicina di operazioni e aspettare un anno prima di ritrovare l'uso della parola. A Srebrenica ha lasciato sul terreno un figlio di sette anni e la propria madre, «uccisi insieme e seppelliti insieme» durante l'assedio della città. Ringrazia spesso, nella conversazione, «Allah», che gli ha concesso di sopravvivere, e «la Svizzera», che lo ha accolto come profugo e ha provveduto alle cure necessarie. A Ginevra la moglie gli ha dato un altro figlio, che oggi ha quindic'anni, ed è riuscito a prendere un nuovo avvio, orientato dall'obbligo di lottare perché gli altri non dimentichino quello che rappresenta per lui quel dolore, a volte insopportabile.
Il ritorno dei morti
«Come ogni anno, non ce la faccio quasi più a dormire», racconta Salihovic. «Tutto riparte verso il 5 o il 6 di luglio, con l'avvicinarsi dell'anniversario della caduta della città. Non posso addormentarmi. Vedo, di notte, i compagni morti. Li vedo dappertutto». Come altri superstiti di altre tragedie, Salihovic trova il senso del suo agire nel futuro di suo figlio: «Non deve mai vivere quello che abbiamo vissuto noi». Con l'appoggio della municipalità di Ginevra, ha ottenuto la posa, l'anno scorso, di una pietra simbolica sulla piazza delle Nazioni Unite: il «kamen spavac», pietra del ricordo della tragedia di Srebrenica. Cercando di lavorare anche sulle radici della guerra in Bosnia, in autunno, l'ex comandante di guerra progetta di organizzare, a Ginevra, un forum sull'identità bosniaca, facendo venire intellettuali e scrittori da Sarajevo e da vari Paesi europei. Un modo di occuparsi del futuro della Bosnia-Erzegovina, che, 16 anni dopo la fine della guerra, sembra ancora prigioniera delle logiche separatiste e nazionaliste.
«Sull'orlo dell'abisso»
Infatti, mentre la Serbia e la Croazia, tutte e due coinvolte e in gran parte responsabili della guerra in Bosnia, sembrano avvicinarsi a grandi passi all'Unione europea grazie ad alcune mosse politiche, come l'arresto, in Serbia, di Ratko Mladic, la Bosnia, che ha sofferto di più per le guerre balcaniche degli anni '90, sembra restare bloccata, sia nel suo sviluppo economico sia in quello politico. Valentin Inzko, rappresentante speciale della comunità internazionale per la Bosnia-Erzegovina, descriveva in maggio al Consiglio di sicurezza dell'ONU un Paese «sull'orlo dell'abisso», «senza prospettiva per la formazione di un nuovo governo e con un'economia trascinata da una spirale negativa» (Radio Free Europe, 10 maggio). L'arresto tanto celebrato di Ratko Mladic, dopo una latitanza di 16 anni, secondo gli osservatori, come Christophe Solioz, direttore del Center for European Integration Strategies, non cambierà «assolutamente niente» nella situazione del Paese.
Divisioni interne profonde
Con la minaccia recente, da parte serba, di organizzare un referendum contro certe decisioni del rappresentante della comunità internazionale e la creazione, da parte croata, di un'«Assemblea croata», il tono del discorso politico riflette ancora le profonde divisioni interne. «La violenza forse non è imminente», scrive l'International Crisis Group in un rapporto pubblicato in maggio, ma potrebbe diventare una «prospettiva vicina» se la situazione attuale dovesse «persistere».
Fonte di entrambi gli articolo: Corriere del Ticino 15.07.2011