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 Il paradosso del negazionismo serbo

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Maresciallo_Helbrecht
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MessaggioTitolo: Il paradosso del negazionismo serbo    Il paradosso del negazionismo serbo  Icon_minitimeVen Lug 15, 2011 12:56 pm

Il paradosso del negazionismo serbo

In molti Paesi del mondo non è lecito negare il genocidio avvenuto in Bosnia Eppure nei luoghi dell'eccidio lo si può fare e lo si fa ancora impunemente


L'arresto, in maggio, dell'ex generale dei serbi di Bosnia Ratko Mladic e la sua estradizione all'Aja per essere giudicato dal Tribunale Penale In­ternazionale per l'ex Jugoslavia (TPI) è stato salutato come una vittoria della giustizia. In Europa, a New-York, ovunque, si è parlato di un «gior­no storico per la giustizia internazionale», come l'ha definito il segreta­rio generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon perché rappresenterebbe l'arresto di uno dei presunti responsabili dell'esecuzione, nel 1995, di più di 8.000 bosniaci musulmani a Srebrenica. Un giorno di giustizia ovun­que, tranne che nei luoghi dell'eccidio, dove le conseguenze della poli­tica dei criminali giudicati a L'Aja si fanno ancora sentire.

■ Popolata nel 1991 da una maggioranza di bosniaci musulmani (più del 70%), la città di Srebrenica dipende oggi dalla Republika Srpska, la Repubblica Serba, una delle due entità della Bosnia-Erzegovina create da­gli accordi di pace di Dayton firmati nel 1995. Attualmente, secondo diverse fonti, è abi­tata da quasi l'80% di serbi, segno che il di­ritto al ritorno dei profughi, pure garantito dagli accordi di pace, non è stato realizza­to. Con il passare del tempo ciò che colpisce oggi l'osservatore, non è l'oblio, ma la ne­gazione dei fatti da parte di certi politici. In linea di principio, stabilendo l'andamento dei fatti, organizzazioni come il TPI o la Cor­te penale internazionale dovrebbero favo­rire il riconoscimento del genocidio di Sre­brenica. Tuttavia, mentre in molti Paesi del mondo [...] non è legitti­mo negare il genocidio, sul posto si può im­punemente affermare che nessun «genoci­dio» ha «mai avuto luogo».
Non si impedisce di affermarlo, per esem­pio, a Milorad Dodik, presidente della Re­pubblica Serba. In campagna elettorale, il primo settembre del 2010, durante un mee­ting politico a Srebrenica stessa, Dodik pro­clamava che «non c'è stato genocidio qui e noi non accetteremo che ci sia stato un genocidio, perché non è un genocidio». A Sre­brenica, ripete in pubblico Dodik, sono sta­ti commessi «crimini», ma nessun «geno­cidio».

Un passato comune introvabile.
A più di 16 anni dalla fine dei combattimen­ti, questo piccolo Paese (51.000 km2 [...]) il cui futuro dipende dalla capacità e della volontà degli ex nemi­ci di stabilire e riconoscere una storia co­mune, si trova sempre diviso tra interpreta­zioni e progetti politici completamente di­versi. Nel 2009, a causa dell'opposizione dei deputati serbi, nel Parlamento bosniaco non era stato possibile adottare un proget­to di legge che mirava a penalizzare «la ne­gazione, la minimizzazione, la giustificazio­ne o l'approvazione» di «genocidi» o di «cri­mini contro l'umanità». [...]
Il 15 gennaio 2009 il Parlamento europeo ha proposto «il riconoscimento, da parte del Parlamento, dell'11 luglio come «giornata del genoci­dio di Srebrenica».

Tragica constatazione
È però nella stessa Bosnia che il bisogno di un simile riconoscimento sembra vitale per i superstiti. Lo hanno dimostrato chiara­mente le reazioni all'adozione, da parte del Parlamento della Serbia, nel 2010, di una ri­soluzione che evitava accuratamente il ter­mine di «genocidio». La Serbia condanna­va allora il «crimine» commesso contro la «popolazione bosniaca a Srebrenica nel lu­glio 1995» come «definito dalla Corte pena­le internazionale», che utilizza, lei, il termi­ne di «genocidio». Questa dichiarazione «rappresenta molto per la Serbia ed il suo establishment politico», commentava il po­litologo bosniaco Sacir Filandra. «Per la Bo­snia e le vittime del genocidio non significa niente» (Radio Free Europe, 30 marzo, 2011). Una constatazione tragica, mentre la Bosnia sembra attraversare la sua più grave crisi dal­la fine della guerra.







L'INTERVISTA ■ SEMSO SALIHOVIC
(ex comandante dell'esercito bosniaco)
«A Srebrenica 8.372 morti, mi dispiace non essere stato il numero 8.373»

■ «Sono contento di sapere che il principale responsabile dei massa­cri commessi dal 1992 al 1995 è sta­to arrestato, ma sono triste che sia accaduto così tardi. Infatti questo arresto risveglia il mio dolore. Che cosa mi può dare il fatto di vederlo, vivo, col suo corpo? Il corpo dei miei non esiste più da molto tempo. Ci sono stati 8.372 morti a Srebreni­ca. Oggi mi dispiace di non essere il numero 8.373.» Semso Salihovic, ex comandante dell'esercito bosnia­co, commenta l'arresto, in maggio, di Ratko Mladic, l'ex generale dei serbi di Bosnia, incolpato di geno­cidio per l'omicidio di più di 8.000 bosniaci musulmani nel luglio 1995 a Srebrenica. Questo superstite, che oggi vive a Ginevra, ha scritto nel 2008 un libro dal titolo evocatore: «Non dimenticare mai Cerska» («Nikada ne zaboravi Cersku»), dal nome della zona di cui era respon­sabile al tempo della guerra.

Lotta contro l'oblio
Racconta la sua guerra ed esorta i su­perstiti a lottare contro l'oblio: «La mia paura dell'oblio è più grande di tutte le paure che sono forzato a ricordare». Racconta la caduta del­la città, l'11 di luglio 1995, e la «mar­cia della morte» che segue. Semso Salihovic ha partecipato alla forma­zione della colonna di quelle 15.000 persone che allora scelsero di cerca­re di raggiungere la città di Tuzla a piedi, invece di recarsi al campo dei caschi blu olandesi dove, come lo si sarebbe capito poi, la morte aspet­tava migliaia e migliaia di loro.

Un addio scritto nel sangue
Aveva percorso più di 80 chilome­tri prima di essere gravemente feri­to da un tiro di granata. Quando si era svegliato era circondato da sette cadaveri. La gola straziata, incapa­ce di pronunciare una parola, aveva utilizzato il proprio sangue per scri­vere col dito, sulla mano, un messag­gio d'addio ai compagni. «Poi muo­io». Sono questi i ricordi del coman­dante, che sarebbe poi «rinato» die­ci giorni più tardi in un letto dell'ospe­dale di Tuzla. Da allora ha dovuto af­frontare una quindicina di operazio­ni e aspettare un anno prima di ri­trovare l'uso della parola. A Srebre­nica ha lasciato sul terreno un figlio di sette anni e la propria madre, «uc­cisi insieme e seppelliti insieme» du­rante l'assedio della città. Ringrazia spesso, nella conversazione, «Allah», che gli ha concesso di sopravvive­re, e «la Svizzera», che lo ha accolto come profugo e ha provveduto alle cure necessarie. A Ginevra la moglie gli ha dato un altro figlio, che oggi ha quindic'anni, ed è riuscito a prende­re un nuovo avvio, orientato dall'ob­bligo di lottare perché gli altri non dimentichino quello che rappresen­ta per lui quel dolore, a volte insop­portabile.

Il ritorno dei morti
«Come ogni anno, non ce la faccio quasi più a dormire», racconta Sa­lihovic. «Tutto riparte verso il 5 o il 6 di luglio, con l'avvicinarsi dell'an­niversario della caduta della città. Non posso addormentarmi. Vedo, di notte, i compagni morti. Li vedo dappertutto». Come altri supersti­ti di altre tragedie, Salihovic trova il senso del suo agire nel futuro di suo figlio: «Non deve mai vivere quel­lo che abbiamo vissuto noi». Con l'appoggio della municipalità di Gi­nevra, ha ottenuto la posa, l'anno scorso, di una pietra simbolica sul­la piazza delle Nazioni Unite: il «ka­men spavac», pietra del ricordo del­la tragedia di Srebrenica. Cercan­do di lavorare anche sulle radici del­la guerra in Bosnia, in autunno, l'ex comandante di guerra progetta di organizzare, a Ginevra, un forum sull'identità bosniaca, facendo ve­nire intellettuali e scrittori da Sa­rajevo e da vari Paesi europei. Un modo di occuparsi del futuro del­la Bosnia-Erzegovina, che, 16 an­ni dopo la fine della guerra, sembra ancora prigioniera delle logiche se­paratiste e nazionaliste.

«Sull'orlo dell'abisso»
Infatti, mentre la Serbia e la Croa­zia, tutte e due coinvolte e in gran parte responsabili della guerra in Bosnia, sembrano avvicinarsi a grandi passi all'Unione europea gra­zie ad alcune mosse politiche, co­me l'arresto, in Serbia, di Ratko Mla­dic, la Bosnia, che ha sofferto di più per le guerre balcaniche degli anni '90, sembra restare bloccata, sia nel suo sviluppo economico sia in quel­lo politico. Valentin Inzko, rappre­sentante speciale della comunità in­ternazionale per la Bosnia-Erzego­vina, descriveva in maggio al Con­siglio di sicurezza dell'ONU un Pae­se «sull'orlo dell'abisso», «senza pro­spettiva per la formazione di un nuo­vo governo e con un'economia tra­scinata da una spirale negativa» (Ra­dio Free Europe, 10 maggio). L'arre­sto tanto celebrato di Ratko Mladic, dopo una latitanza di 16 anni, se­condo gli osservatori, come Chri­stophe Solioz, direttore del Center for European Integration Strategies, non cambierà «assolutamente nien­te» nella situazione del Paese.

Divisioni interne profonde
Con la minaccia recente, da parte serba, di organizzare un referendum contro certe decisioni del rappre­sentante della comunità internazio­nale e la creazione, da parte croa­ta, di un'«Assemblea croata», il to­no del discorso politico riflette an­cora le profonde divisioni interne. «La violenza forse non è imminen­te», scrive l'International Crisis Group in un rapporto pubblicato in maggio, ma potrebbe diventare una «prospettiva vicina» se la situazio­ne attuale dovesse «persistere».




Fonte di entrambi gli articolo: Corriere del Ticino 15.07.2011
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