Vi posto un paio di interessanti articoli sul ruolo delle donne in Cina e sull'ordinamento giuridico del gigante giallo che ho letto oggi sul giornale. Spero che possano interessare anche a voi.
La tratta Quei ventimila bambini spariti
«Nel mio Paese gli uomini devono decidere se vogliono una società basata sull’equità»
■ Signora Xinran, tutto continua ad andare avanti come ci racconta nei suoi libri o nel frattempo è cambiato qualcosa?
«Circa due anni fa sono tornata in Cina e ho scoperto che un numero sempre maggiore di bambini è stato adottato e ho conosciuto un gruppo di oltre duecento famiglie spagnole che hanno tutte adottato dei maschi da una grande città vicino a Pechino. I bambini stanno bene in salute e le famiglie che li avevano adottati erano contente e questo per me è stato un fatto completamente nuovo, perché prima solo le bambine erano disponibili per l’adozione. Ho mandato dei volontari a fare delle ricerche e ho scoperto che più di ventimila bambini sono scomparsi ogni anno in Cina negli ultimi cinque anni. Per questo credo che le autorità locali e gli orfanotrofi siano coinvolti in tutto questo insieme a organizzazioni criminali e alla mafia: sicuramente questi bambini sono rapiti nelle aree povere del Paese, mandati alla gente dei villaggi del sud, venduti per poco e poi per un prezzo che varia dai tremila ai cinquemila dollari rivenduti alle famiglie occidentali. Una volta ho chiesto ragguagli al Governo centrale su questo problema, ma si sono rifiutati di parlarne. È un tabù del quale non si deve assolutamente discutere in alcun modo e intanto, mentre ai vertici il disinteresse crea pericolose sacche di malgoverno, il traffico cresce indisturbato e chissà quante madri piangono o ancora dovranno piangere per la malvagità che le priva dei loro affetti più cari».
A chi fa comodo secondo lei che nei villaggi delle campagne cinesi la popolazione viva ancora in una profonda arretratezza culturale?
«Innanzi tutto bisogna dire che non c’è una sola Cina: ci sono più di cinquecento anni di differenza fra la città e la campagna in termini di sviluppo e almeno venti, cinquant’anni fra la parte orientale e la parte occidentale della Cina. La gente vive in epoche diverse e in più la cultura cinese, con l’impronta del confucianesimo, risale a tremila anni fa. Generazioni intere sono cresciute con questi principi: l’uomo è l’unico che può portare avanti la discendenza familiare, assumere l’eredità. Gli uomini perciò hanno tutti i vantaggi, ma negli ultimi vent’anni è cresciuta la necessità di aiutare le donne a difendere i loro diritti. Ma, secondo me, si tratta anche di aiutare gli uomini a capire se vogliono una società basata sull’equità». A.G.
Cina
«Da noi nascere femmina è ancora una maledizione»
Figlia della Rivoluzione culturale, la giornalista e scrittrice Xinran dà voce al silenzioso dramma delle donne cinesi che abbandonano le proprie neonate
Nascere femmina? Se si nasce in Cina si rischia di essere uccisa o abbandonata. La normativa sulla pianificazione delle nascite ha costretto donne di ogni ceto sociale a separarsi dalle proprie figlie dandole in adozione o abbandonandole o, peggio ancora, a sopprimerle al momento della nascita, per poter avere e crescere un solo figlio maschio. Il destino tragico di tante bambine ha scatenato in Xinran, giornalista e scrittrice nata a Pechino nel 1958 e dal 1997 residente a Londra, la necessità della testimonianza e lo ha fatto prima in Cina con il programma radiofonico Parole nel vento della sera, dedicato alle donne e alle loro drammatiche storie, e poi con libri che sono una sorta di esplorazione nel profondo della vita cinese: La metà dimenticata (2002), un long seller sulla condizione delle donne cinesi; Le figlie perdute della Cina (2011), dieci strazianti storie di madri costrette a uccidere le loro bambine appena nate o a separarsi da loro; Le testimoni silenziose (2012), in cui l’autrice riporta le testimonianze degli anziani del Paese raccolte viaggiando per tutta la Cina: la «generazione silenziosa» che ha assistito alla dirompente trasformazione della nazione da Paese agricolo a Stato moderno, racconta la propria visione dei fatti, confondendo spesso la vita privata con quella politica e sociale.
■ Signora Xinran, donne cinesi di diversa astrazione culturale ricorrono tutte all’abbandono o all’eliminazione delle figlie femmine. Questa mostruosità, è giustificabile in qualche modo?
«Considerando la cultura e le diverse filosofie del confucianesimo e il fatto che la società è gestita dagli uomini, i bambini maschi anche appena nati hanno una posizione più importante di quella della madre all’interno della famiglia – che è sempre molto bassa –, almeno fino a quando non diventano nonne. A quel punto hanno la responsabilità della casa e questo è un motivo di rispetto e in qualche modo di potere. L’abbandono e l’eliminazione delle bambine rientrano in questa tradizione, aggravata poi dalla legge nata come indicazione politica nel 1979 che impone un figlio unico per famiglia. La selezione per molte famiglie è diventata una necessità in attesa della nascita del figlio maschio, che rappresenta la continuità dinastica e assicura prosperità alla famiglia».
Sono solo questi i motivi che rendono l’uomo padrone assoluto della vita in Cina?
«Sì, ma bisogna anche considerare che negli ultimi cent’anni ci sono state molte guerre (guerre civili, i conflitti dei signori della guerra, la guerra con i giapponesi, la Corea e il Vietnam) e quasi tutte le famiglie hanno perso dei figli maschi, braccia che mancavano al lavoro e che bisognava assolutamente rimpiazzare. Le madri cinesi hanno attraversato periodi molto difficili e non hanno avuto il tempo di rilassarsi, di condividere il loro amore con i figli. Dal 1949, dall’inizio del comunismo, la Cina ha avuto un periodo politico travagliato e da allora ci viene detto che ogni contatto fisico fa parte dell’impronta capitalistica occidentale. Mia madre non mi ha mai abbracciata. Non ricordo una volta in cui mi ha detto di amarmi. Molte madri cinesi, se vogliono amare i loro bambini, debbono amarli in silenzio, trattenendo nel cuore tutto il loro amore senza ostentarlo ».
Quanto è responsabile il Governo dell’infanticidio, dovuto in gran parte alla legge del figlio unico?
«Quando parliamo del Governo direi che pur essendo composto da esseri umani e cinesi cresciuti in questa cultura e in questo ambiente storico-politico, per loro è difficile essere d’accordo con me specialmente quando parlo degli orfanotrofi. Dicono che le condizioni di vita sono migliorate per la maggior parte dei cinesi, perché quindi dovremmo preoccuparci degli orfanotrofi, dei diritti delle donne e delle loro condizioni? E per discolparsi dicono: nemmeno i nostri figli hanno un alto grado di istruzione, perché dovremmo preoccuparci dell’istruzione delle donne? Sono andata nelle campagne a intervistare delle autorità locali e a cercare di mettere in discussione problemi come i servizi igienici e i diritti delle donne e loro rispondevano al mio autista quando facevo le domande, perché io sono una donna e la consuetudine prevede che un uomo non debba rispondere alle domande di una donna. Questo mi fa capire che in Cina c’è un’influenza culturale radicata molto più forte delle politiche del Governo».
L’abbandono dei bambini fa fiorire un mercato illegale tanto che certi orfanotrofi si procurano i piccoli per commerciare in carne umana. A riguardo le leggi sono superficiali o sono severe e impongono un rispetto rigido?
«Ciò che avviene è vergognoso e in questo momento ci sono aspetti della situazione che possono influenzare il sistema legale giudiziario che in Cina non è indipendente. Qualsiasi magistrato può essere completamente deviato dal potere politico. La Cina inoltre si muove e sviluppa molto rapidamente e il sistema politico ha prestato più attenzione allo sviluppo economico e alla crescita dei problemi sociali, ma gli orfanotrofi e il commercio di bambini il cui destino in molti casi è preoccupante a dir poco, sono problemi piccoli rispetto al complesso dei problemi nazionali. Questi traffici, inoltre, succedono soprattutto all’interno di piccole comunità locali, dove ci sono delle autorità composte da persone che hanno poca istruzione, nessuna conoscenza del diritto internazionale e in campagna si vede subito che c’è una grande differenza rispetto alla gente di città».
Differenza di che tipo?
«Il settanta per cento della popolazione cinese è ancora costituita da contadini e allevatori e queste persone sono vicine alle autorità locali che non hanno una formazione né una istruzione di alcun tipo né il concetto dei diritti umani. Se faccio delle domande, loro mi chiedono perché le donne hanno bisogno di diritti. Noi vi diamo la vita e il cibo, dicono, e questo tipo di discorsi mi fa supporre che ci sarà una lunga marcia per arrivare a un certo tipo di comprensione. Se si va nelle 47 maggiori città della Cina, la vita non è diversa da quella della Gran Bretagna o degli Stati Uniti: sono istruiti, capiscono la situazione e combattono per i propri diritti i cinesi delle città. Ma nei villaggi siamo ancora al Medioevo».
Ispirati al diritto romano
Il noto giurista racconta la genesi del codice civile
Tra i tanti cambiamenti che hanno caratterizzato la realtà cinese contemporanea vi è anche l’adozione del modello romanistico nell’impianto del sistema di regole del diritto civile. Una scelta per molti aspetti singolare in cui ha avuto un ruolo importante il professor Oliviero Diliberto, docente di Diritto romano alla Sapienza di Roma ed ex ministro di Grazia e Giustizia in Italia dal 1998 al 2000. Per questo l’Associazione culturale «Il Ponte» ha invitato il giurista italiano a tenere una conferenza dal titolo Il modello del diritto romano in Cina che avrà luogo domani sera, 11 ottobre, alle ore 20 presso la Sala Carlo Cattaneo in via Ferruccio Pelli 16 a Lugano. Il CdT gli ha rivolto in anteprima qualche domanda.
■ Professor Diliberto, come nasce l’interesse della Repubblica popolare cinese per il sistema romanistico e qual è il suo ruolo personale in questa singolare vicenda?
«La storia è piuttosto semplice: la Cina, nella prima metà del secolo scorso, aveva provato ad attuare alcune esperienze codificatorie, con scarsi risultati. Nel 1949, poi, con la vittoria della Rivoluzione comunista e la nascita della RPC, l’ordinamento preesistente fu interamente abrogato. Con la Rivoluzione culturale, poi, iniziò la fase denominata del «nichilismo giuridico»: si negava cioè, in via generale, ogni ruolo al diritto. Tutto era destinato a modificarsi con l’avvio delle «quattro modernizzazioni » di Deng. Le riforme economiche degli anni Ottanta e l’apertura a forme di mercato suscitarono infatti anche un nuovo, se pur ancora solo abbozzato, interesse verso il diritto, le leggi, le regole. Ma la svolta, che non esito a definire storica, stava solo per avvenire. Era il 1988».
Cosa accadde?
«Sandro Schipani, allora docente di Diritto romano dell’Università di Roma Tor Vergata, ebbe, dunque, una straordinaria intuizione. Immaginò che, essendosi aperta al mercato, la Cina avrebbe presto avuto necessità di dotarsi di regole del diritto civile. Così, Schipani incominciò ad avviare contatti con le università cinesi ed in particolare con una delle principali tra esse, l’Università Cinese di Scienze Politiche e Giurisprudenza (CUPL) di Pechino. Firmò, dunque, nel medesimo 1988 un primo protocollo d’intesa per intraprendere la collaborazione scientifica tra le università. La firma di quel protocollo era stata resa possibile dalla sua lungimiranza, ma anche da una circostanza intrinsecamente fortunata. Il decano dell’università cinese, Jiang Ping, aveva infatti a suo tempo studiato a Mosca, ove aveva appreso anche il diritto romano, intuendone l’utilità per la costruzione del nuovo diritto civile cinese. I tempi erano maturi, insomma, per procedere verso una codificazione organica del diritto privato. Nel 1999 (50. anniversario della fondazione della RPC), il gruppo dirigente del PCC decise, dunque, ufficialmente, di redigere – come intuito dieci anni prima da Schipani – un corpo di leggi civili per le principali materie riguardanti l’economia di mercato (diritti reali e diritti di obbligazione)».
Restava il nodo del modello, dei riferimenti, della cornice sistemica cui attingere, tra le esperienze esistenti...
«L’alternativa era tra l’adozione del modello europeo, a base romanistica, o di quello anglosassone ( common law), il diritto fondato sul precedente giurisprudenziale che dalla Gran Bretagna era divenuto il diritto anche degli USA. La discussione – evidentemente di fondo – coinvolse i gruppi dirigenti dello Stato e i giuristi. Fu molto partecipata, libera, appassionata, senza reticenze, anche aspra: alla fine, prevalse la scelta del sistema romanistico. Risultato straordinario, questo: ma possibile anche perché, appunto, nel frattempo, si erano prodotti quei primi risultati (fondamentale è stato evidentemente l’accesso linguistico ai testi, grazie alle traduzioni in cinese che nel frattempo Schipani aveva avviato)».
E qui entra in gioco Lei...
«O meglio, ancora una volta, il caso. Quando, infatti, nel 1999, la RPC decideva di intraprendere la strada della codificazione, io ero diventato da pochi mesi ministro della Giustizia in Italia: ministro, peraltro, ma anche docente di diritto romano e parlamentare comunista. Le tre singolari e coincidenti caratteristiche sortirono un’ulteriore accelerazione nella ricezione del diritto romano in Cina. Iniziò così anche un rapporto istituzionale fra i due Paesi. Sono seguiti successivamente altri incontri internazionali di lavoro (nel 2005 e nel 2009) e la collaborazione è proseguita con straordinaria intensità. Molti studiosi di diritto romano svolgono con regolarità lezioni, seminari, conferenze nella RPC. Centinaia di giovani studiosi cinesi studiano oggi il diritto romano nelle nostre università. Esistono oggi circa 120 università cinesi nelle quali è insegnato il diritto romano. E tutto ciò, in poco più di vent’anni».
Dunque quello che potrebbe sembrare un sistema giuridico appartenente alla Storia si rivela a ben guardare ancora utile ed efficace per la società del Terzo millennio. Quali istituti e quali caratteristiche rendono il sistema romanistico del tutto confacente alla realtà contemporanea?
«Guardi, è necessaria una premessa. Lo studio del diritto romano, in quanto tale, è una disciplina storica, studia cioè il diritto relativo ad una entità statuale estinta: la Roma antica. Conoscere la storia delle istituzioni giuridiche del passato è utile, perché attraverso la genesi degli istituti giuridici, della loro evoluzione nel tempo, delle modificazioni intervenute, si comprende assai meglio anche il diritto dei nostri tempi. Ma il diritto romano ha un altro aspetto, straordinariamente attuale: per quanto estinto ha una sorta di “vigenza” ancor oggi. Dalla fine dell’esperienza storica del diritto romano, quel diritto ha infatti modellato di sé tutti gli ordinamenti civilistici dell’Europa continentale: dal Portogallo sino alla Russia (Svizzera compresa, con il codice civile della Confederazione Elvetica, adottato il 10 dicembre 1907 e in vigore dal 1912 redatto ad opera soprattutto del grande giurista Eugen Huber); e poi, partendo dal Vecchio continente, ha segnato di sé l’intera esperienza giuridica dell’America Latina, per arrivare – tramite l’influenza determinante della dottrina tedesca di fine ‘800 – sino all’ordinamento civilistico giapponese.»
Ha continuato, quindi, a vivere in Paesi con ordinamenti istituzionali e regimi politici tra loro diversissimi ?
«Certo, ma ognuno di questi Paesi ha modificato, soppresso, aggiunto, “piegato” gli istituti romanistici alle diverse e contingenti esigenze del tempo, della realtà geografica, della politica e dell’economia. Ma la base, le istituzioni del diritto privato romano, appunto, sono rimaste inalterate nella loro sostanza di fondo. Così come dalla lingua latina sono sorte tante diverse lingue neolatine, che, attraverso la comune matrice, possono tra loro comprendersi senza soverchio sforzo; così il diritto romano ha costituito la base per la nascita di diversi diritti “neoromani”, fondati su un comune sistema (l’impianto complessivo), su categorie pressoché identiche, su un linguaggio comprensibile all’interno del medesimo sistema, su una scienza giuridica elaborata da tecniche giurisprudenziali di interpretazione del testo (l’esegesi delle fonti) similari in ogni latitudine. Ma, rispetto alla lingua latina, con uno spettro geopolitico enormemente più ampio».
Fonte dei 3 articoli: Corriere del Ticino, 10.10.12