Hanamichi Sakuragi è un teppista: 188 cm di pura irascibilità sotto un
improponibile ciuffo di capelli rossi. Non solo! Matricola al liceo
Shohoku, Hanamichi è anche sfortunatissimo in amore e ha collezionato
una serie per nulla invidiabile di rifiuti (una cinquantina almeno!),
accolti ormai con ilare inevitabilità dai suoi amici. Ma per un tipo
così, un rifiuto è solo una tappa lungo la strada del successo, e
quindi, a far breccia nel suo cuore, arriva subito la dolce e pimpante
Haruko Akagi, appassionatissima di basket. Per Hanamichi è solo
l’inizio di una altalenante carriera sportiva che, in nome dell’amore,
lo porterà a dividere la scena con i tanti giovani professionisti del
campo: il capitano Takenori Akagi (energumeno dai lineamenti
scimmieschi, nonché fratello di Haruko), il tenebroso Kaede Rukawa
(totalmente insofferente verso il prossimo e anche verso le donne,
nonostante sbavino tutte - Haruko in primis - per lui) e il rivale
Sendo, solo per citare i principali.
Da questi presupposti prende le
mosse la più bella serie sportiva realizzata in Giappone negli ultimi
anni, “Slam Dunk” (titolo che indica la poderosa “schiacciata” che il
cestista compie infilando, in elevazione, la palla nel canestro), un
fluviale racconto (101 episodi datati 1993) ispirato all’omonimo
fumetto di Takehiko Inoue. Slam Dunk è però prima di tutto una vicenda
di personaggi, indagati pienamente nella loro intimità psicologica, nei
loro sogni, delusioni, speranze, che sono poi quelle di tutti i
ragazzi: i problemi con i compagni più prepotenti, le prime cotte, le
defaillances scolastiche. E in controluce aleggia il sempre temuto
spettro del terribile sistema di insegnamento giapponese, basato su
punteggi e graduatorie spietate, che si riverbera in una società
classista e sempre pronta a ingiuriare gli sconfitti.
Per lo spettatore, invece, è impossibile non identificarsi nelle
battaglie del folle “Genio del Basket” (come Hanamichi si autodefinisce
con sprezzo del ridicolo) contro gli avversari, contro le difficoltà
d’amore, ma soprattutto contro l’inesperienza; è impossibile non ridere
delle sue follie, sostenute da un ritmo narrativo sempre pronto a
passare senza soluzione di continuità dal drammatico al ridicolo. Ed è
difficile non “tifare” per lui in un quadro sociale virato al nero e
unicamente teso a valorizzare il più forte. Hanamichi, insomma, è
l’alfiere dei perdenti, che sa valorizzare il talento di chi conta
unicamente sulle proprie risorse e sul suo impegno nei confronti di una
causa che ritiene giusta. Tanto che alla fine conquista anche
l’agognato posto in squadra diventandone uno dei membri più validi.
“Slam
Dunk”, dunque, è una serie all’insegna della passione: verso la donna
ideale, ma anche verso la vittoria sportiva (tenacemente inseguita dal
capitano Takenori Akagi, che la cerca da tre anni) e verso il
superamento dell’avversario (per Rukawa che intende battere l’alter ego
Sendo). L’aspetto sportivo, comunque, trova spazio attraverso lunghe
partite dove tutte le tecniche del basket vengono spiegate allo
spettatore mediante l’intervento estemporaneo del buffo “Dr. T”, una
specie di assurdo “narratore” che spezza la continuità narrativa
ponendo l’accento sulle varie tecniche in campo, sempre, ovviamente, in
bilico fra serio e faceto. Rispetto alle serie di questo tipo, però, la
regia risulta volutamente un po’ statica e manca l’elemento
oggettivizzante dato dalla voce del cronista, a voler ribadire come
“Slam Dunk” sia prima di tutto una serie fatta dai personaggi e dalle
loro emozioni. L’inquadratura, così, esalta il primo piano come
elemento principale, e i pensieri degli protagonisti sostituiscono il
cronista creando il pathos narrativo necessario. Non mancano poi le
implausibilità narrative, tipiche dei cartoons sportivi made in Japan,
e la dilatazione dei tempi narrativi, che amplia il senso drammatico
della sfida.