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 3° Aedo Zendriano- Il Primo Sole d'Oriente

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Shasso
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MessaggioTitolo: 3° Aedo Zendriano- Il Primo Sole d'Oriente   3° Aedo Zendriano- Il Primo Sole d'Oriente Icon_minitimeMar Ago 24, 2010 7:52 pm

Due personaggi chaive del racconto possiedono nomi simili, attenzione a non confonderli. Possiedono quei nominativi per motivi...d'onorificenza, diciamo. Qualunque riferimento a cose o persone è involontario, forse non per tutte, ma non vi dirò quali sì e quali no. Se troverete degli errori si tratta di errori di battitura, chiedo scusa anticipatamente, ma non li correggerò perchè sto lavorando ad un altror acconto. Grazie.

Prologo: I fischi del drago
Sognare. Una pratica semplicemente complessa. Un metodo sempre attivo in cui il cervello riordina le informazioni assunte nella veglia. Cosa cercava allora di dirmi il mio subconscio? Da quanto ricordo, a parte le notti trascorse in un piacevole nero, si era sempre trattato di cose molto...cinematografiche: me in versione “dark hero” armato di mitra presi in prestito da videogiochi, con tanto di massacro dei cattivoni e inevitabile lieto fine con bacio assieme alla bellezza oscura e maliziosa. Che strano cambiare registro quando ero effettivamente con un mitra -relativamente parlando- in mano. Un vedersi specchiato nel vuoto, a ballare con una donna. Abito da festa, molto in stile Sissi. Fate voi. Stavo bene, c'è da dire, vestito come lo Schiaccianoci, ed ero sereno, a dirla tutta, con fra le mani tutte quelle donne che, in un modo o nell'altro avevano influenzato le mie scelte: la prima cotta, il primo due di picche, il secondo due di picche, la mia prima ragazza, il terzo due di picche, la prima storia seria, la prima volta che ho fatto sesso, l'ultima che ho avuto prima di partire, quella carina al bar che non ho mai avuto il coraggio di avvicinare alle libere uscite. Tutte senza rancore. Ma la parte più molesta erano i fischi: come quando sparavano i mortai, ma senza il botto finale e senza le grida dei maciullati.
< Svegliati culo bianco! > Che palle. Era Jamil.
< Che c****o vuoi Jamil? Non vedi che sono impegnato? > Regola numero 3 dei soldati: mai interrompere un momento intimo, fosse in compagnia o da soli.
< Fanculo te e queste bianche del c****o, non senti i fischi? > continuò l'indiano.
< Se smettessero di farli! > risposi.
< Se smettessero di farli ti troveresti un' alabarda nel culo, coglione. Alzati che devi andare a scuola >

Fosse la più temibile delle minacce (diavolo, svegliarsi costantemente alle sei di mattina lascia il segno) aprii gli occhi, intontito. Chiudendoli perché del terriccio ci entrò.
< Fanculo! > urlai in italiano.
< Buoggiorno > rispose Jamil, con un lessico italico sgangherato. Fu la sua faccia che vidi; il volto decisamente da contadino indiano (nel senso di indiano dell'india, non di grande capo coyote sdraiato), la pelle scura, il sorriso bucherellato da una scarsa cura dentale, gli occhi vispi, vent'anni che ne dimostravano dieci di più, mischiando campi e guerra.
< Che Shiva ti fulmini, Pizza Margherita, i cinesi hanno dato il via all'orchestra sinfonica e nessuno ti trovava. Quel cane di Duryaja mi ha mandato a cercarti. Se non avesse i galloni..>
< Avrebbe i galletti > lo interruppi saltando giù dalla branda, dando pure una testata contro una trave di legno del rifugio < ...camadonna. > si aggiunse uno shampoo di terra.

Afferrai di corsa il fucile Lakshminaff -amichevolmente chiamato Sandokan-, lo zaino e le bandoliere. Tirandoci a vicenda imboccammo l'uscita della tana, sotto i rombi delle granate le travature tremavano, qualche volta si staccava un pezzo, terriccio sbriciolava onnipresentemente. Temevo di non farcela.
Scattammo fuori dall'ingresso interrato tutto di corsa, con il fiatone. Ci fermammo un po' dopo, proprio quando il sergente Kavi arrivò con un altro attendente del Comandante.
< Sbrigatevi prima che dopo i flauti i cinesini inizino le danze con gli ottoni. > ci fece il primo.


Raggiungemmo la colonna lì vicino, tutti si preparavano per una ritirata. Come al solito una marea di sguardi era puntata su di me: l'unico occidentale in oltre i seicento uomini del reggimento Quabanhi. Gloria all'esercito della Repubblica Democratica Indiana!
Duryaja ci folgorò con lo sguardo, mentre salivamo su uno dei camion; era troppo impegnato per l'abituale cazziatone.
Mentre prendevamo posto il confabulare era acceso: chi parlava di qualcosa lasciato nelle tane, chi di avercela fatta per il rotto della cuffia, qualcuno speculava sulle ipotesi dell'improvvisa ritirata. Afferrai il sergente per la divisa: < Kavi, mi spieghi che c****o sta succedendo? >
Si guardò in giro, come dovesse rivelare un segreto di stato, poi scacciò un fante dal suo posto e si sedete difianco a me.
< m***a > fece < Da quel che ho capito è arrivata dal comando di divisione l'ordine generale di arretramento, prima che i gialli facciano sparare i Xion-chu. Sembra che i noistri amici d'oltre montagna abbiano preparato un'offensiva in grande stile. >
Mi irrigidii sul colpo: sapere di essere scampato per il ritto della cuffia al terrificante fuoco di sbarramento di quei mostruosi cannoni cinesi mi aveva fatto venire un colpo. Sarei morto di sicuro: erano in grado di annientare una linea trincerata con un paio di salve.
< Ma perché qui? Non c'è nulla se non qualche villaggio? Dici che stavamo avanzando troppo verso il loro territorio? > domandai
< m***a allora, se è così sono veramente degli esagitati. Si dice che l'intera Terza armata popolare si sia mossa. Per qualche schermaglia di confine? Non credo. In Tibet avrebbero avuto ragione: da quando abbiamo occupato quel territorio abbiamo tagliato gran parte delle riserve idriche per le loro centrali nucleari, o almeno è quanto ho sentito. Ma qui... fanculo, se posso dirlo, se verranno li ammazzeremo come abbiamo fatto con gli altri; vuoi? > Mi offrì una fiasca con del liquore, americano dall'odore, con un tono di voce che non lasciava obbiezioni sulla voglia di continuare il discorso.
Accettai. Mentre bevevo, la colonna si avviò, e lasciammo la vallata. Alle nostre spalle si alzavano nuvole di polvere, che coprivano le montagne scure sotto un cielo scuro, con il fiume che si estendeva in cielo con i riflessi di chissà quali raggi di sole. Sentimmo anche tuoni, ma non stava venendo a piovere: avevano cominciato il valzer i pezzi pesanti. Salutammo il Bramhaputra e ce ne andammo, Jamil suonava musiche della sua gente che davano alla testa, insieme al coraggio liquido nella fiaschetta.


Capitolo 1: Ricordi e pioggia

Ogni volta che mi hanno chiesto della mia vita in Oriente ho sempre risposto con la stessa formula: "In realtà il primo ricordo relativo a quel periodo riguarda l'Italia".
Più precisamente Milano: sono seduto alla sala d'aspetto del terminal che sarà il transito per Mumbay, con la mia amata giacca marrone ed un borsone da palestra carico quanto la valigia che l'accompagna. Mi padre, prima di partire, mi disse che sembravo un albanese, e credo non riguardasse soltanto l'abbigliamento. Me ne resi conto allora, sulla sedia di plastica e con una lattina di Coca in mano: ero davvero come un albanese. Per inciso, il riferimento era piuttosto antiquato, a tempi in cui non eravamo tutti fratelli delle nazioni confederate dall'Europa, e noi "occientali" ci ponevamo con arroganza verso chiunque fosse più povero di noi, anche se si trattava di "cugini" dall'altra parte dell'Adriatico.
'Chissà quando mi vedranno i bravi padri di famiglia indiani, preoccupati che quest'europeo insidii le loro figlie e il posto di lavoro dei loro figli'. Una bella lezione d'umiltà. In realtà appartenevo a quella categoria di fortunati fra gli sfortunati: infatti nella mia terra i contadini avevano avuto a lungo rapporti amichevoli con braccianti Sikh, Pakistani e sud-est asiatici in generale, e avevano ricambiato volentieri gli aiuti contabili di mio padre con una raccomandazione a quegli -almeno un tempo- immigrati che iniziavano a tornare in madrepatria come futuri piccoli imprenditori o liberi professionisti. Anche quando cercavamo di dissuaderli rispondevamo con il tipico flemmatismo italico: < Non si sa mai, Cervi, non si sa mai >.
Ed avevano saputo bene invece: avrei già trovato ad attendermi un lavoro, una famiglia per bene ed un alloggio. Sputateci sopra! Avevamo maturato l'idea che dovessi andare già da diversi mesi, ma si faticava comunque a metterlo in pratica: lo sguardo di una madre anziana che vede il figlio doversene andare rimane una cosa che eviterei sempre. Ma che fare? Avevo una laurea in lettere, assolutamente inutile, specialmente in una Federazione che si regge a malapena sopra l'orlo della dignità grazie solo all'essere unita; e si era pure fortunati come europei: negli ex Stati Uniti era un vero incubo: la guerra civile ardeva senza sosta, con episodi di crudeltà talmente efferati che giust'appunto gli ex-jugoslavi sapevano descrivere senza ipocrisia. Tre capitali erano troppe: New York fedele ai Democratici, Dallas ai Repubblicani, e San Francisco che semplicemente gestiva il potere come meglio poteva. Sembrava la guerra dei cent'anni, con un sacco di Wallenstein! Intanto, quatti quatti, il Canada ed il Messico iniziavano già a spartirsi le spoglie del gigante morente -rispettivamente l'Alaska ed il New Mexico- e a confrontarsi su quel campo di battaglia tramite burattini più o meno manovrati. In Europa c'era da dire che nonostante la povertà dilagante vi erano la pace e l'eguaglianza sociale: sembrava di essere tornati ai film di Don Camillo e Peppone, dove quel che si ha, è quello che si mangia. Ma poi ci sono da aggiungere le cure per dei genitori anziani, le bollette, e quando i scopri che i concorsi per esercito, o polizia, o qualsiasi diamine ci fosse sono stati rifiutati non tanto perchè non sei capace, ma perchè sono troppo pieni, capisci che è ora di intraprendere altre strade, anche se non piacevoli.
Sono sempre qui, l'aereo è in ritardo. Mi si siede difianco un ragazzo, che attacca quasi subito bottone: si chiama Oleg, ed è russo. Un vero gigante, quel tipo: due o tre spanne più alto di me e un sacco di muscoli. Faceva il tornitore a Volgograd, quando in Russia -sì, anche li- è scoppiata la guerra. Un presidente ed un oppositore. Poi due presidenti, poi tre, poi quattro, poi una nazione enorme cade nell'anarchia più totale, dove ci sono decine di presidenti e quello valido è quello che comanda sul tuo territorio in quel preciso momento. E lì invece sono i nostri futuri amici che se la ridono: la Cina strappa grosse fette di costa e gli Iraniani, dopo aver cacciato a pedate gli Hayatollah, agguantano il Caucaso ed i suoi Pozzi petroliferi. Persino lo sgangherato Esercito Federale Europeo riesce ad ottenere una sfolgorante vittoria catturando la parte russa della penisola scandinava.
Ma la vera sorpresa l'hanno in serbo gli Indiani: riuniscono come federazione tutte quelle nazioni che non vogliono finire sotto l'egemonia cinese, e con un colpo di mano invadono il Tibet, annettendolo come stato autonomo retto dal Dalai Lama. I cinesi subiscono il colpo senza riuscire a reagire con prontezza: le divisioni nemiche sono già ben trincerate, e hanno l'appoggio dei locali. I vertici di Pechino preferiscono una cauta pausa di "riflessione".
Ecco, questo è lo scenario che abbiamo dovuto affrontare: mi consigliavano di andare in Canada, visto che parlo bene il francese. Ma ho preferito provare ad andare in Oriente, ho preferito provare quella straordinaria civiltà che mi aveva sempre affascinato. Per non parlare del Kama Sutra.
Io ed Oleg ci scambiamo i numeri di telefono, mentre ascoltiamo al telegiornale il G8 che butta a mare un mucchio di cazzate sull'aiuto dei paesi poveri. Noi siamo i poveri. Ora sono Canada, Iran, Brasile, India, Cina, Messico, Sud Africa a decidere. Il rappresentante dell'Europa non conta nulla.
Quando era arrivato qui in italia il mio nuovo amico era convinto di rifarsi una vita e di sistemarsi: 50%, buon risultato. Poi suo fratello si era beccato la leucemia e le cure erano troppo costose anche per il nuovo stipendio. E così si parte.

Due cose che mi ricorderò sempre della mia partenza saranno la pioggia e le patatine. Ha piovuto tutto il tempo, in barba all'Italia terra del sole, e in ogni scena che mi visualizzo sto smangiucchiando delle patatine.
Alla fine l'aereo arriva: saliamo e ci mettiamo a sedere. Siamo gli unici bianchi dell'aereo: tutti gli altri sono indiani che tornano a casa dopo aver visitato le famiglie italiane presso cui avevano lavorato nemmeno tanti anni prima. Ma sono sicuro che le cose cambieranno: i nuoviricchi inizieranno a dimenticarsi progressivamente di quelli vecchi, e i nuovi poveri -altrettanto progressivamente- inizieranno ad andare a cercare un po' di fortuna.
In sé il viaggio in aereo è privo di dettagli interessanti, a parte quando Oleg sta quasi per strangolare nel sonno uno Stuard ed un bimbo mi tira un elefante di gomma, vedendoselo poi restituire in faccia, a velocità doppia però. Guardo un po' di televisione, dove c'è l'Ultimo Samurai, e penso al giappone ridotto come il Vecchio Continente, e penso che è veramente giunto il cambio della guardia.
Alla fine atteriamo a Mumbay, scendiamo ed immediatamente un poliziotto doganale ci chiama di lato e ci fa un bel controllo. Io ho tutte le carte in regola, Oleg un po' meno, ma quando dico che sono amico di Jamir Mhendi ci lasciano andare. Fuori piove, ancora, e mi inzuppo tutto mettendomi ad aspettare l'autobus che mi condurrà alla stazione dei treni, e da lì cambiare trasporto e dirigermi verso Dheli. Il mio "compare" invece rimarrà qui, dove ci sono già alcuni suoi connazionali; ci salutiamo come se ci conoscessimo da un sacco di tempo, quindi ci separiamo.
Salito sul vagone, mi siedo difianco al finestrino, avvolto in una lingua che non conosco; e mentre il viaggio prosegue, vedo le scene di vita andare a demolire quell'idea residua di India che gli album fotografici e i vecchi film di National Geographic aevano creato: dove sono le vedove vestite di bianco, o le ragazze timide vestite di sete leggere e policrome? Sostituite da quelle gioani così decise in shorts e maglietta, pronte a diventare testarde e spregiudicate donne d'affari? Così anche per i buoni sacerdoti induisti dalla lunga barba bianca, così magri che si vedevano le costole? E le baraccopoli, abbattute progressivamente per far spazio ad un economia multicefalica e schizofrenica che trova nel cemento e nell'edilizia uno sfogo appena necessario? Ci rimango male quando da un giornale in inglese apprendo che le vacche sacre sono state da tempo spostate dalle trafficate vie cittadine a recinti confortevoli nel pieno dei grandi parchi cittadini. Per intendersi: anche io apprezzo le comodità della vita moderna, e non potrei essere meno felice vedendo i contadini costretti da generazioni a spaccarsi la schiena finalmente seduti su trattori e mietitrebbia, sicuri per la prima volta da millenni che non dovranno patire la fame, né che al ritorno troveranno una baracca di fango e paglia. Ora sto andando forse un po' per stereotipi (come dimenticare l'epico passaggio di Camilleri dove Montalbano si complimenta per il cartello "Non abusate dei luoghi comuni"), e concludo dicendo che la ricchezza, il benessere e la modernità sono in ogni caso ottime cose, ma rimarrà sempre impresso nella mia memoria il mio arrivo a New Delhi, durante la breve visita alle parti più importanti della città, in cui chiesi ad un poliziotto dove fossero le slum, e lui mi guardò prima dubbioso, poi divertito. Quindi indicò alle mie spalle: il bersaglio era un gigantesco centro commerciale in cristallo e cemento. Alzò le spalle, come per scusarsi di una immaginaria delusione.

Erano le sette di sera quando arrivai al quartiere residenziale dove viveva l'alta borghesia dei banchieri, degli avvocati, dei manager e dei notai: bramini in doppiopetto per caste che diventano classi. Mi fermarono circa quattro volte per controlli ed in una dovetti pure offrire una birra agli agenti per evitare che mi portassero in caserma per "accertamenti".
Alla fine, stanco come un somaro e bagnato come un pulcino suonai al campanello giusto (ne avevo dovuti provare due o tre). Si trattava di una grossa villetta a schiera decisamente bella, moderna, dipinta di un color crema, con balconi e gazebo nel grosso giardino nascosto dalla siepe e dagli alberi. Rispose una voce di bimba, che in inglese fece: < Parola d'ordine! >
< Zoo > risposi
Una risatina, quindi la vocina fece: < Sbagliato! Ora lo dico al papà! > *cluck*!
Ne dissi di tutti i colori, in italiano però: non si sa mai.
< Marco! > disse una voce chioccia, facendomi sobbalzare.
< Jamir! Nonostante tu sia un fottuto riccone puzzi ancora di vacca come quando lavoravi per quel suonato di Carlo >
Scoppiammo a ridere. Il padrone di casa era un uomo alto ed imponente; emanava regalità da ogni poro, vestito eleganemente e con il turbante di stoffa verde.
Mi aprì il cancelletto, ed entrai fino in casa, dove si trovava la famiglia al completo: < Questi sono i miei adorati figli > fece l'uomo acarezzandosi la folta barba scura < Questa è Shalina > disse indicando la più grande, una giovane incredibilmente bella ed elegante, vestita tradizionalmente; gettò rapidamente nel cesso gli stereotipi della principessa indù quando si fece avanti per stringermi la mano: < Chiamami Debby > portava i capelli color inchiostro legati dietro la testa, alla occidentale, aveva un collo lungo ed elegante, tratti morbidi e due occhi d'ambra in cui ci si rimaneva invischiati dentro.
< Questo invece è Ashan, il secondo maschio del gruppo > continuò il capofamiglia. Si face avanti un ragazzo deciso, tutto suo padre, anche lui in abiti tradizionali < Piacere, spero che andremo d'accordo > disse con uno sguardo deciso ed onesto. Mi piacque da subito.
< E lei è Rashida > fece Jamir indicando la terza. < Ciao, Rashi > fece lei. Doveva essere la tipica ragazza pseudo-ribelle alla Britney Spears, parecchio più giovane di me, ma che si atteggiava da donna di mondo, però non fu né maleducata né arrogante, alla fine imparai ad apprezzarla.
< E lei > continuò l'uomo < è la piccola Maria -l'ho chiamata come l'ultima nipote di Carlo-. Di ciao principessa > intantoa veva preso in spalla una bimba di 4-5 anni, che mi salutò timida con la mano.

Avevo tutti gli sguardi addosso, sembravo un clochard passato per un autolavaggio. < Heee...ciao ragazzi, io sono Marco Cervi, e di solito non puzzo così > si misero a ridere: ottimo risultato.
Li salutai mentre papà e figlioletta minore mi indicavano la mia stanza e il bagno, che usai subio per rendermi quantomeno presentabile.

Mi chiamarono per cena, mentre mi asciugavo guardai fuori dalla finestra, fissando le luci che si illuminavano nella notte calante della Capitale. Luci un tempo degne di New York, o di Berlino.
Si sentivano i suoni di locali e discoteche e musicisti trasportati dal vento carico di smog: era proprio giunto il cambio della guardia.
Mi vestii, guardando il sole calare: l'ultimo sole per l'occidente, il primo sole d'oriente.


Capitolo 2: taxi notturno
Un vecchio adagio sosteneva che non si può avere tutto affermando l'impossibilità dell'equazione moglie ubriaca+botte piena; ebbene, sicuramente giusta per la distribuzione del karma nel mondo, non pareva così corretta quando era il proprio turno di applicarla. Per inciso la mia coniuge brilla corrispondeva ad una casa asciutta, uno stipendio decente e la stima dei superiori. La botte vuota al dover accompagnare una ragazzina quattordicenne convinta di dover attirare le attenzioni di ogni maschio arrapato nel giro di kilometri. Le mie allora primitive nozioni di Indi mi facevano ben capire come il padre fosse tutt'altro che contento della gonna che definire corta era puro eufemismo, e men che meno della maglietta di lana tessuta apposta per dare l'idea "morbide bocce calde nella stoffa" profondamente incisa da una scollatura degna delle migliori drag queen di Las Vegas.
Non voglio affermare la correlazione ragazzetta svestita-mestiere più vecchio del mondo, sia perchè sono un apprezzatore della mancanza di veli (non delle escort, malpensansìti!) sia perchè quando avevo l'età della giovane le ragazzette che inseguivamo erano decisamente così (e non voglio fare la figura del vecchio conservatore); però l'intenzione di essere visibile e...appetibile c'era tutta, insomma. Make-up pesante, gioiella da regina, tacchi pericolosi per la salute -propria ed altrui- ed il simpatico completo sopra citato.
Ecco, dopo questa descrizione, riuscite a capire la mia apprensione quando Jamir mi disse, rosso in volto: < Meglio per te che torni a casa come l'ho lasciata >?
Mi era venuta voglia di rispondere "scopabile" in memoria di una vecchia serie Tv, ma l'istinto di sopravvivenza prevalse sulla cinefila.
Questa è l'introduzione alla mia prima, epica, sfiga che mi avrebbe perseguitatoper il resto del soggiorno in Oriente.
Riassumendo: guidavo una macchina visibilissma da ricconi in un quartiere da ricconi per portare la figlia in piena stagione degli amori ad una discoteca alla Papete (e chi sa di cosa parlo capisce la mia disperazione) indossando una scomodissima divisa da autista-bodyguard. Aggiungeteci che la tipetta continuava a guardarmi come una pornostar (ma guardava tutti i maschi escluso suo padre e suo fratello così) parlando esclusivamente con allusioni sessuali. Era un miracolo non essere circondati da giovani indiani ululanti.

Arrivati, le aprii la portiera (non perchè fossi tenuto a farlo, ma perché mi passava un piccolo "bonus" se lo facevo davanti ai suoi amici) e dissuasi subito il primo branco di maschi allupati che si stava avvicinando facendo scorrere il loro sguardo sulla Beretta che tenevo al fianco.
< Come ci regoliamo ragazzina? > dissi.
< Non chiamarmi ragazzina, st..per favore. > rispose < Torna la mattina presto. >
La guardai perplesso < Te lo scordi: tuo padre, cioé il mio capo, ha detto che per le 3 devi essere a casa >
Fece una faccia come solo una ragazzina viziata può fare < Maaaa no! Alle 3 è la parte migliore! Non è giusto! >
< Sai cosa non è giusto? Il fatto che debba scarrozzarti in giro per la città. Mh, facciamo una cosa: alle quattro meno venti ti voglio qua fuori, pulita, sobria ed in ordine. A tuo padre ci parlo io. >
Altra faccia degna di un teatro greco, stavolta di stupore per aver trovato "comprensione" in un adulto. Oltretutto meno ricco!
< Graaaazie zio Marco! > mi gettò le braccia al collo. Le narici mi si inondarono di cattivo profumo.
< Sì, sì, fuori dai piedi...e ricordati il patto > le feci sbrigativamente. Si allontanò raggiungendo un gruppo di oche -non letterali ovviamente- stazionanti all'ingresso. Fui sollevato delf atto che fossero tutte vestite come lei, e questo la rendesse meno evidente, così come lo fui delf atto che si fosse levata dalle scatole: l'avevo duro come una spranga.


Mi piazzai seduto sul cofano a fare le cose del repertorio "aspetta-Rashida", che comprendevano pulire la Beretta (non prendetela come un'allusione), scribacchiare le note per questo diario, giocare a Guitar Hero sul Nintendo, dormire, ascoltare la radio, ripartire dall'inizio.
Ero al quarto punto quando un malefico pugno mi svegliò battendo sul finestrino. Uno di quei truzzi in camicia brillantinata mi parlava in Indi come se volesse scappare da un'orda di zombi. Tolsi la console dalla fondina e ci rimisi la sua occupante originale.
< Che caffo fuffede ? > dissi sbadigliando in inglese. Nel senso che lo sbadiglio era in inglese.
< Là, là, là! > rispose muovendo casualmente le braccia.
< Là cosa? O stai cercando di cantare deficente? >
< m***a, là, si stanno menando! > riuscì finalmente a completare una frase, seppure a grande fatica.
< Ma perchè c****o mi hai dovuto disturbare? > chiesi, sperando se ne andasse chiedendomi scusa per l'inconveniente.
< Hai una pistola! > disse, come se spiegase tutto.
Mugugnai incazzato e andai con lui sul campo di battaglia. Se si fosse presentata l'occasione glie l'avrei fatta pagare.

Davanti una delle uscite d'emergenza era scoppiato il finimondo: due uomini si pestavano selvaggiamente, urlando e sanguinando; calci, morsi e pugni, e si era trasformata in un turbine di polvere mista a immagini fugaci di corpi. Già si era formato un capanelo di gente attorno: veri e propri tifosi, amici di uno o dell'altro che incitavano il proprio campione, addirittura un gurppetto aveva iniziato a fare scommesse.
Mi sarei divertito a rovinargli la festa.
Mi faci avanti a spintoni fino al centro dello scontro, dove afferrai per la collota uno dei due, tirandolo verso di me. La risposta fu che l'altro, mi tirò un destro dritto sulla mascella.
Ora si che ero incazzato: appena il primo si espose gli tirai un calcio in faccia, mettendolo in condizione di non nuocere. L'altro si immobilizzò stupito per l'interruzione, poi permase nel suo immobilismo quando gli tirai una testata sul setto nasale, mandandolo a terra, e completai l'opera con un calcio sul fianco. Si levò un lamento collettivo, di delusione.
La gente iniziò a disperdersi, come neve al sole. Tornavano alle occupazioni precedenti , con l'illusione di essere persone civili, e non di aver partecipato ad un decisamente "popolare" ritorno all'epoca dei gladiatori.

Rimasi lì, ad aspettare che tutti se ne fossero andati: mi ero trovato trascinato dentro e osservavo chiocciamente che si risolvesse il tutto. Tendenza ad assumersi le responsabilità, la chiamano. Più comunemente nota come "darsi martellate sui testicoli".
Fu allora che notai la porta disicurezza semi-aperta: da li erano usciti,per evitare il controllo dei buttafuori. Una scarpa da donna la manteneva aperta; volevo avvertire la sicurezza, quando con la coda dell'occhio vidi una figura famigliare, e, non so bene perchè, entrai.
L'interno del locale era...dantesco; ho sempre odiato la musica a palla, le luci stroboscopiche e la folla apparentemente immune a tutto quell'estremo. Mi confondeva, irritava, mi pareva un'immersione in un'ambiente in cui ero completamente estraneo. Come quando da piccolo, durante un viaggio, ero entrato in una di quellea ttrazioni gonfiabili a forma di organismo di mostro; ad un certo punto mio padre si era allontanato, e già l'apprensione si era fatta vivida. Aggiungeteci i suoni cupi che si alternavano con grida acute, le parole rimbombanti in fiammingo -ci trovavamo in belgio- che pervadevano gli ambienti soffocanti pieni di fumo artificiale, ed erano neri, come la pece, con luci rosso amaranto ai piedi, e poi le simil-schifezze penzolanti, il fetore, il non incontrare nessuno..... insomma, l'avevo vissuto come un vero incubo, forse per il mio essere bambino. Oggi ne rido, ma quella fu l'unica volta in cui dormii con i genitori.
Mi dava similmente la stessa viscerale sensazione, quel luogo così caotico e buio. In ogni angolo vedevo scene di depravata lascivia, mentre magari erano soltanto ragazzi con un cockital.
Corsi giù per le scale del privé, con il fiatone. Non so perchè scelsi quella strada, ma tutt'ora mi affido frequentemente a quelle sensazioni istintive quando la razionalità va a farsi benedire.

Si para difronte un uomo, sulla quarantina. Parla, palra, ma non lo sento, lo butto a terra con un pugno. Possibile che anche a posteriori mi paia così simile a Resident Evil? Un'altro si fa avanti, un cazzotto nello stomaco ed una ginocchiata sul naso; risolto. Si arriva al terzo, cammina traballando, ha gli occhi spiritati da chissà quale porcheria. Lo colpisco una, due, tre volte, ma si rialza anche con il naso rotto e gli occhi gonfi. Dio, il cuore mi btteva come un tamburo militare. Afferro una bottiglia di Becks (perchè Becks? Come faccio a saperlo?) e lo colpisco. Finalmente cade.
Arrivo in fondo alle scale: più si scende perggio é. Donne e uomini nei numeri e nelle combinazioni più improbabili si lasciano agli istinti sessuali come bestie, anzi, senza quella gaia naturalezza che dovrebbe accompagnare il coito. Piatti di polveri, pastiglie, collane di perle e bicchieri analcolici.
La porta illuminata dal neon blu: sembro Jackie Chan quando la apro con un calcio e mi fiondo dentro.
Bestemmio ad alta voce, in italiano: la ragazzina che dovevo proteggere, Rashida, è circondata da uomini e donne decisamente adulti, che puzzano di cattiveria da lontano un miglio. Lei è piegata sul tavolo, con una banconota arrotolata fra le dita immobili. Dio, è bianca. Dio, è immobile. Morta? MORTA???

La seconda caratteristica dell'eroe->idiota è il senso del dovere, che insieme all'assumersi le responsabilità rappresenta le fregature più grosse.
Ora cercate di capirmi: sono cresciuto a Tex Willer, Nathan Never, Mass Effect e Viking Metal. Io significa che quando vedo una bambina -sì una bambina- accasciata su un tavolo, scossa dalle convulsioni, con la bava alla bocca e tutt'attorno uomini ricchi e grassi circondati da puttane ingioiellate, bhe, scatta quelqualcosa per cui vorresti possedere una lunga barba bionda, un'ascia a due mani e un completo pelle-di-orso+cappello-da-cowboy.
Mi getto sulla folle, e mi scappa da ridere: è tutto così...improbabile. Avevo pensato ad una vita carina ed una morte interessante. Terminare il liceo, laurearmi in legge, vivere l'arco 20-30 anni divertendomi con attenzione e quindi sistemarmik in una bella casa senza pretese in centro a Stoccolma. Invece finite le scuole prendevo una leurea in letteratura, facevo l'operaio che perde il lavoro e va a giocare al Bodyguard in una fottuta città dell'India. E stavo per morire poer vendicare una ragazza.
Già, stavo per morire, si capiva dai gesti dei bestioni li a fianco, pronti ad estrarre garrotte e serramanico, e dai grassoni in doppiopetto che si pregustavano lo spettacolo.
La musica? Sbaglio o è una qualche sinfonia di Wagner? No, è Verdi. Devo aver urlato una cosa come "Muoio da patriota" o "Avanti savoia" mentre mi butto sul primo scimmione che mi si para difronte. La raffica di pugni e calci, assolutamente casuali, lo fa cadere come una quercia sopra un tavolino, alzando nubi di coca.
Il secondo prende l'iniziativa, colpendomi con uno sfollagente alla spalla. Fa male, e rischio di perdere l'equilibrio: prima che possa colpire di nuovo gli scivolo sotto la guardia e tiro un calcio la ginocchio; si abbassa d'istinto, ne approfitto per dargli una gomitata a lato dell'occhio sinistro. Il tacco del mio stivale che si abbatte sulla bocca chiude la questione. Un'ombra alle spalle. Il panzone è su di me, con un coltello. Ma si ferma, all'improvviso, guardandosi. O meglio, guardando una macchia sullo sterno. Macchia? O buco? Un foro da proiettile, originato dalla Beretta che mi è apparsa in mano, e una coda di sangue che scende. Cade in ignocchio, forse prega la divinità che conosceva da bambino, prima che scendesse all'inferno. E muore.

Al rumore dello sparo, che risuona sopra la musica, e sopra il chiacchiericcio, tutto si ferma. Cade un bicchiere, si rompe, e l'incantesimo è spezzato. La folla si accalca alle uscite di sicurezza, come una mandria minacciata dai coyote. In pochi attimi tutto è vuoto. Si precipitano anche i buttafuori, dentro però, con i revolver in mano.
Mi avranno trovato sfinito difianco alla ragazza, perchè è ancora viva, ma per poco se nessuno farà nulla, gli avrò detto: < Chiamate un ambulanza >
Ma tutto questo me lo immagino, perchè già perdevo coscienza, stringendomi uno squarcio sul fianco, fatto da chissà quale lama in quella notte senza senso.
< Anzi, due >.
Ed è già buio.


Capitolo 3: l'imporsi di un'occasione
Dalle tenebre alla luce. È questa la base di gran parte delle idee, movimenti o religioni che hanno animato il mondo dalla notte dei tempi, ed è straordinario vivere ciò dal vivo.
Il suono ripetitivo della macchina, con i suoi bip-bip, il chiecchiericcio dell infermiere, sempre calmo anche fra pazienti che le maledicono ed aghi o clisteri che entrano od escono, il nervoso camminare dei dottori, che ricorda tanto i re in visita ai feriti delle loro guerre.
Emergere dalle nebbie dell'incoscenza, consapevole di aver perso tempo ma né quanto né cos'è accaduto dentro e fuori di te.
Ci misi un po' prima che i pensieri si schiarissero; ovviamente nel frattempo era come esplosa una bolla, con il personale medico che correva da tutte le parti, e lo sferragliare dei carrelli, ed il guardare speranzoso dei famigliari di qualche compagno di stanza.
Rimasi per tre settimane in ospedale, fra infermiere terribilmente sexy che accorciavano gli abiti e suore terribilmente moleste che cercavano -perfortuna invano- di coprirle. Riuscii, in via di guarigione, persino a portarmene a letto una. Di infermiere si intende.
La brutta sorpresa erano i "braccialetti del poliziotto" che mi legavano saldamente il polso sinistro alla spondina del letto, orgogliosamente serviti dalla questora, o meglio, dalla sua corrispondente indiana.
Mi spiegò tutto Jamir, il primo giorno in cui mi venne a trovare; il ciccione a cui avevo sparato era morto, e un notevole gruppo degli idioti che avevo malmenato nel locale era finita in ospedale, nel mio stesso pronto-soccorso per giunta. La famiglia del "magnante", con grave sprezzo del senso del ridicolo, aveva pubblicamente chiesto la mia testa. L'avvocato assunto da Jamir aveva già controbattuto alla stampa, affermando sia il concetto di autodifesa, sia il grave contesto in cui l'uomo era stato sorpreso. La reazione era sata ovviamente un disgusto talmente falso, talmente...pacchiano, da parire così ridicolo che nemmeno fu presentata una querela. Per mia fortuna, quantomeno, qualcuno aveva iniziato a parlare, e diceva molto di più di quanto non ci si aspettasse: roba grossa, giri di coca fra i palazzi del potere, traffici di squillo provenienti dai poveri paesi del caucaso o dal pakistan, e così via.
La parte brutta era che il pubblico ministero era una donna in carriera in un ambiente decisamente maschilista, e voleva assolutamente farsi un nome da dura, mandando sì avanti le inchieste che io avevo permesso, ma sbattendo in carcere anche me.

Alla fine, senza che vedessi neppure l'ombra di un giudice, o di un ribunale, mi si paventò la soluzione; la Cina aveva riaperto le sotilità in seguito all'occupazione del Tibet per mano indiana, ed il Primo Ministro voleva giocare d'anticipo. Fu emanata una legge d'urgenza che permetteva a criminali prima incensurati e che si erano macchiati di crimini di "non allarme sociale" (come Eccesso di Autodifesa) di arruolarsi e di scontare la propria pena nell'esercito.
Potendo scegliere fra indossare un'uniforme verde ed una a strisce propensi per la seconda.





Epilogo: profumi noti
La cosa migliore dell'esercito erano le "aggiunte" che Rashida faceva mettere nei miei pacchi della Croce Rossa: liquore, pile, filo da pesca... cose utili, specialmente in guerra, fra tanti soldati scuri scuri che ti fanno veramente dire "Alone in the dark".
Mentre aprivo il primo di questi pacchi, con il bel simbolone delle associazioni umanitarie, ero seduto nell'ufficio di leva, con un mendato di coscrizione in tasca e generi di conforto che sarebbero dovuti durare per un mese. Gli abiti li davo per dispersi, come infatti furono allla sostituzione con la divisa.
Al mio turno entrai, mi fecero la visita, valutarono con occhio -neanchetanto nascostamente- schifato che ero un quasi-galeotto e mi diedero il foglio con sopra scritto la caserma in cui mi sarei dovuto recare.

Sembrava una delle sale d'attesta dei dentisti; bianca, con un tavolino rosso strabordante di vecchie riviste nazionalistiche ed un sacco di sedie di plastica.
In realtà c'erano poche persone -giusto una ventina-, merito della nomea della divisione: la leggendaria "Sezione Singh", quella generalmente pulita, che viene fotografata mentre da barrette di cioccolata ai civili e che sfila facendo ciao-ciao al ministro della difesa.
Tutti sparpagliati fra le sedie, tendevamo a raggrupparci, tranne gli "Isolati", cioé me (il bianco) ed un altro ragazzo, che seduto in un angolo sfogliava un fumetto di Topolino.
Mi avvicinai; scoprri anche perchè era tenuto lontano: puzzava, nel caro, vecchio, senso originario della parola. Un alone misto di sudore e letame, non cattivo, ma che pizzicava il naso, almeno a chi come me era comunque cresciuto nelle campagne della Bassa Emiliana.
Ci salutammo con un gesto, e scambiammo qualche parola, più che altro per ridere di tutti quei signorotti che si presentavano alla leva con giacca e cravatta, inevitabilmente destinate a trasformarsi in dure mimetiche di stoffa grezza.
Era la prima persona che posso definire "amico", laggiù in Oriente. Scoprii che in quella divisione si finiva per tre motivi: o si aveva già un parente stretto caduto in guerra (lui) o sia veva amici molto in alto (me) o si era figli della media borghesia indiana, che contava troppo poco per mandare i figli a scuola ufficiali ma abbastanza per impedire che andasse a sbucherellarsi al fronte (tutti gli altri).

All'altoparlante dissero il mio nome, mi alzai piuttosto teso. Allungai la mano verso l'altro e dissi: < Piacere, Marco Cervi >.
E l'altro la strinse: < Piacere, chiamami pure Jamil >
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MessaggioTitolo: Re: 3° Aedo Zendriano- Il Primo Sole d'Oriente   3° Aedo Zendriano- Il Primo Sole d'Oriente Icon_minitimeLun Set 06, 2010 12:32 am

Bellissimo shas. Stupendo. Hai un modo di scrivere pauroso, riesci a rendere al meglio l' atmosfera e l' immedesimazione è alle stelle. :prostra:
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MessaggioTitolo: Re: 3° Aedo Zendriano- Il Primo Sole d'Oriente   3° Aedo Zendriano- Il Primo Sole d'Oriente Icon_minitimeLun Set 06, 2010 12:37 pm

Grazie, grazie molte! Altri commenti?
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MessaggioTitolo: Re: 3° Aedo Zendriano- Il Primo Sole d'Oriente   3° Aedo Zendriano- Il Primo Sole d'Oriente Icon_minitime

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